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Ancora sulla natura e il territorio

26 Settembre 2013
Pioppeto
Paolo Bettini, “Pioppeto”, 2013

Da fine estate gru e cingolati hanno ripreso a scavare e il loro rumore minaccioso e ripetitivo echeggia nella valle a ridosso del fiume Reno in cui vivo. Tutta la zona è classificata come protetta da vincolo idrogeologico, per la natura del terreno e per la presenza della golena del fiume, nonché da vincolo paesaggistico, visto che siamo ai piedi di un magnifico contrafforte pliocenico di arenaria dorata.

Ciò non ha impedito di prelevare vaste aree di sabbia e ciottoli utili per l’edilizia che l’azienda responsabile degli scavi ha ‘idealmente’ risarcito, costituendo un’oasi con laghetto per il birdwatching. Al laghetto non ci va mai nessuno, d’estate quando si secca è di una tristezza sconfortante, inoltre come i geologi insegnano se togli un peso da una parte, facendo un buco, crei una forma di risucchio da un’altra parte, quindi tutti questi buchi fatti nel terreno per espropriarlo della sabbia così vitale all’edilizia, avranno una loro ripercussione sull’intero sistema delle falde.

Intanto noi dovremmo deliziarci di uccellini che nidificano e cantano. Ma il timore che le spianate recentemente realizzate siano la premessa per ulteriori costruzioni si è insinuato quando ho notato che hanno aperto un’altra strada, in mezzo al bosco che costeggia il fiume. Qualcuno già parla di un complesso residenziale. Nel bel mezzo di un’area protetta.

Tutto questo in deroga alle leggi, tutto questo in deroga al buon senso, tutto questo in deroga a qualsiasi forma di fraternità col mondo in cui viviamo.

Non so quali compromessi fra politica e affari ci siano stavolta a giustificare l’ennesima deturpazione, la storia che ho immaginata nel mio romanzo Violazione viene sempre largamente superata dalla realtà, da migliaia di storie che ogni giorno mangiano il nostro suolo e ci privano di esistenza e di identità, ma ancora una volta non è l’avidità del singolo a stupirmi di più, quanto l’assenso delle istituzioni, la loro connivenza con il male.

Le istituzioni e le leggi esistono per mettere un freno all’egoismo del singolo a favore della convivenza civile di una comunità, di più singoli che riconoscono dei limiti per poter avere tutti dei diritti e delle garanzie di esistenza.

Ma se questa condizione viene meno, se le istituzioni stesse sono le prime a violare e ignorare le leggi, si disintegra la possibilità stessa che esista una comunità, si sprofonda nella cecità individuale.

Il problema del come abitiamo lo spazio di come usiamo la terra, non è un problema meramente ascrivibile alle preoccupazioni ecologiche, che ora sono tanto superficialmente di moda quanto disattese nei fatti, è un problema più profondo: abbiamo idea di che ci stiamo a fare qui?

Per chi costruiamo nuove case, se la popolazione non aumenta e gli alloggi sfitti sono migliaia e migliaia? In Italia ci sono dieci milioni di case abusive, non c’è un centimetro di litorale che non sia stato lottizzato, non c’è campagna che non sia brutalmente attraversata da strade e superstrade, assediata da aree industriali e capannoni.

Non vedo rimedio a questa situazione, le oasi per birdwatching sono un penoso cosmetico di cui si farebbe volentieri a meno, il fatto rilevante è che la gente accetta di vivere ovunque, di stare dentro un cubetto di cemento ovunque, sopra le autostrade, di fianco ai ripetitori, nel buco dove prima c’era un bosco, o un campo coltivato.

Se la terra è oggetto di una brutalità senza senso allora anche chi vi abita lo è; il totalitarismo prodotto da un sistema di consumi entropico e senza freni che Pasolini denunciava con tanta veemenza, quarant’anni fa, si è perfettamente compiuto.

Pasolini contrapponeva a questo il mondo antico, dove a suo modo di vedere c’era un maggior equilibrio fra l’appropriarsi dei luoghi da parte dell’uomo e il corso dei fenomeni naturali, l’assetto della terra.

Mi colpisce il modo in cui formulava il suo pensiero: “Ormai del resto, la distruzione del mondo antico, ossia del mondo reale, è dappertutto. L’irrealtà dilaga attraverso la speculazione edilizia del neocapitalismo”.

Il termine irrealtà è, fra tutti quelli che poteva scegliere il più forte e, a posteriori, il più adatto a descrivere la situazione che si crea quando il suolo su cui viviamo è solo luogo di mera occupazione per decubiti di cemento che sono, nella maggior parte dei casi, bruttissimi e inutili.

Irrealtà è la provincia vicentina iperurbanizzata descritta in Tristissimi giardini di Vitaliano Trevisan, irrealtà sono i quartieri residenziali dell’interland milanese protagonisti di L’ubicazione del bene di Giorgio Falco, o la sterminata periferia romana descritta da Walter Siti e da Tommaso Giagni ne L’estraneo.

Irrealtà è il villaggio antisismico costruito a pochi chilometri dal centro dell’Aquila che, dopo il terremoto del 2009, difficilmente tornerà a vivere se non come museo di se stessa, gli outlet che richiamano nelle forme i castelli disneyani e che insieme alle villette a schiera punteggiano ormai tutte le arterie viarie di ogni regione italiana.

Tutto questo è possibile, perché l’Italia è un paese corrotto, dominato da poteri illegittimi che nello stato cercano sempre una sponda, perché manca in larga parte un senso del bene comune, perché troppo in fretta siamo passati da una realtà rurale a una industriale e post-industriale, ecc. ecc., ma alla radice c’è – io credo – una ragione più sostanziale: da un sacco di tempo abbiamo smesso di porci, in questo paese come altrove, una domanda che nella sua basilarità viene considerata trascendentale e quindi trascurabile per chi si accontenta del qui ed ora: che ci stiamo a fare su questo pianeta? Cosa siamo? Perché dovremmo essere fraterni con una natura che con noi non è certo e non sempre benevola?

L’obiezione classica a questo tipo di domande è che essendo prive di risposta, quanto meno in un orizzonte e laico e completamente mondanizzato, siano anche inutili.

Mentre posso essere d’accordo sul fatto che siano destinate a rimanere senza una risposta definitiva, non credo affatto che siano inutili. La storia dell’umanità che si evolve ha inzio con domande che superano di gran lunga i suoi bisogni contingenti, il suo arco di proiezione. Questo tipo di domande ci ha portato a essere animali singolarmente evoluti e diversi da tutto il resto che popola la terra, il che potrebbe anche costituire una pericolosa anomalia, ma è la nostra storia, la storia di cui conserviamo memoria.  L’unica risposta che trovo è che, la natura, la terra, gli animali, i corpi organici, costituiscono tutto ciò che abbiamo; il movimento di progressiva alienazione da questo ci ha portato prima a una perdita di senso dilagante e ora ai margini di una vera e propria autodistruzione materiale.

Sono già tanti i luoghi sulla terra, e anche in Italia, dove non è più possibile vivere, coltivare, respirare, pena la malattia e la morte.

Dopo, se dovesse avvenire su scala mondiale, sarà forse di nuovo il silenzio della materia inorganica e il gelo delle stelle, ma intanto l’avventura dell’animale simbolico, della specie homo sapiens, sarà fallita per sempre.

Se il nostro orizzonte politico e filosofico è per forza di cose post-utopico, è possibile che con la perdita delle utopie abbiamo perso anche la forza primaria che ci muove: lo spirito di sopravvivenza.

Per disinnescare questo ottundimento di percezione si potrebbe cominciare a camminare, percorrere la terra con le proprie gambe e misurarsi coi luoghi in una unità che non sia l’auto, o qualsiasi altro mezzo di trasporto meccanizzato.

Tornare a fare i conti con la finitudine che siamo e accoglierla, anziché occultarla nella sazietà e nella cattiva infinità delle merci, del consumo, del cemento, ci renderebbe forse meno alienati.

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2 Commenti

  1. Una volta nel mio blog ho scritto: Siamo anche i luoghi che abitiamo, che attraversiamo. I muri, i marciapiedi, i portoni circondano i pensieri e li condizionano, mettono loro le ali o gliele tagliano, a seconda dei colori, della luce, dell’odore. Amore e odio dipendono sostanzialmente da questo, oltre che dai ricordi che caracollano nello spazio indefinito dei passi e della memoria.
    Ci stiamo strozzando con le nostre mani.

  2. Sara (Vighi)

    Cara Alessandra,
    come sempre i tuoi post, analogamente ai tuoi libri, ci invitano a riflettere su temi molto importanti.
    Penso anch’io che l’Italia sia un paese corrotto e bisogna avere il coraggio (tu lo hai dato a me anche attraverso il romanzo “Violazione”) di dirlo, anzi di gridarlo, affinché sentano soprattutto i più giovani, che, non avendo responsabilità, hanno tutto il diritto di esigere uno Stato irreprensibile.
    Hai perfettamente ragione, in Italia non c’è alcun bisogno di costruire nuove abitazioni (per la verità sarebbe meglio andare cauti con ogni tipo di costruzione). Numerose sono appunto le case non abitate e molte di esse, come molte di quelle occupate e come molti degli altri edifici, necessitano di interventi di ristrutturazione. Insomma, il lavoro non può essere una scusa per gettare nuovo cemento. Le stesse professionalità potrebbero essere impiegate per ridare efficienza, accessibilità e bellezza ai nostri centri urbani maggiori e minori. Va da sé che non è così automatico sostituire un certo modo di “fare edilizia” con un altro, per tante ragioni, ma qualsiasi siano le difficoltà incamminarci sulla strada di un cemento più responsabile è doveroso.
    Tra le cause del malcostume diffuso, come dici tu, c’è la mancanza di un senso del bene comune. Io vorrei andare appena oltre: irrealtà e alienazione derivano anche dalla nostra totale incapacità, ormai, di confrontarci serenamente con l’aggettivo “pubblico”, e di coglierne e valorizzarne le oggettive potenzialità. Il concetto di “pubblico” fa paura, ribrezzo, schifo. Evoca spettri di vario tipo, da quello della dittatura e della violenza a quello dell’inefficienza e della paralisi produttiva a quello della perdita economica. Piuttosto che godere, con lucido orgoglio, della proprietà condivisa di un certo bene, e vigilare per garantirgli un’amministrazione degna, si preferisce far saccheggiare il bene da un qualsiasi potere privato (cioè noi elettori lasciamo che tutto ciò avvenga), non importa se la collettività ne ricaverà solo del danno. Perché è di questo che si tratta: ciò che interessa e riguarda tutti allo stesso modo – e solo quello, non faccio fatica a specificare – gestito correttamente dà molti più benefici (anche economici, e a tutti) se rimane in un regime di proprietà pubblica. Parere personale, certo, ma bisogna comunque riportare l’argomento all’interno delle discussioni.
    Il nostro rapporto con il concetto di “pubblico” è tutto da ricostruire, ma farlo e farlo senza ipocrisie e preconcetti, senza dare per scontato nulla, potrebbe condurre non solo a un’Italia migliore, ma anche a un’Europa finalmente compiuta. Sperimentale e visionaria, ma con il carico di cultura che abbiamo alle spalle ce lo possiamo e ce lo dobbiamo permettere.

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