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Annie Ernaux, “Gli anni”, L’orma editore 2015

28 Giugno 2015

Ernaux

Prosegue la meritevole pubblicazione in Italia da parte della casa editrice L’orma dell’opera della scrittrice Annie Ernaux, molto conosciuta e affermata in Francia dove da un trentennio circa ha intrapreso una monumentale, quanto originale, narrazione autobiografica.

Gli anni, uscito per Gallimard nel 2008, è dunque ora disponibile nella bella traduzione di Lorenzo Flabbi e giunge dopo Il posto, che, pubblicato in Italia solo l’anno scorso (l’edizione originale è del 1983), ha ricevuto un’ottima accoglienza.

Entrambi impegnati a fare i conti con il Tempo, la Storia e la memoria, a partire dalla propria storia di famiglia, Il posto e Gli anni sono in realtà strutture narrative molto diverse: Il posto, come La honte (La vergogna), affronta a partire da un lutto, la morte del padre, la ricostruzione di un’identità familiare, dell’infanzia, di luoghi e abitudini, divenuti tanto più cari in quanto inaccessibili, poiché l’autrice ha compiuto un salto di condizione sociale e culturale tale da allontanarla da quel mondo: a partire dalla lingua stessa che non condivide più con i genitori, il patois e l’idioletto domestico degli anni della crescita. Si tratta di un racconto autobiografico dove le vicende personali assumono contorno e spessore proprio a confronto con la storia del dopoguerra: la progressiva emancipazione dei ceti bassi verso un benessere economico che per l’autrice coincide anche con un passaggio culturale che la porta a essere insegnante, membro di un ceto borghese ben diverso da quello di provenienza. All’interno di questa dinamica di relazione si giocano la raffigurazione del padre e della madre, protagonisti a tutto tondo, di cui vengono ricostruiti il passato e il profilo psicologico perché è solo quando non ci si vergogna più delle proprie radici che si può scorgere il senso della propria vita, come afferma l’autrice.

Viceversa Gli anni è una narrazione senza personaggi, ricompaiono la madre e il padre, i parenti, le presenze più o meno significative del paese della bassa Normandia in cui è nata nel 1941 e in cui ha vissuto fino all’età dell’università, e poi il marito, i figli, gli amanti, ma come l’io dell’autrice si insabbia in una terza persona che emerge dalla descrizione di fotografie, così le persone evocate non diventano mai personaggi, il racconto si spoglia di ogni intenzionalità romanzesca o memoriale: cose e persone vengono descritte come se scorressero sullo stesso misterioso nastro trasportatore che è il tempo dove tutto si livella, nella distanza.

Gli anni assomigliano dunque a delle Effemeridi, tavole di valori in cui le vicende individuali si misurano sulla prossimità e comparabilità con il fluire della Storia: la ripresa economica postbellica, la retorica sulla resistenza, l’oblio sulle deportazioni naziste, la fiducia nello Stato, il boom economico e la società dei consumi, gli oggetti che molto più delle persone condizionano e cambiano la vita, come l’auto, la radio, la televisione, in seguito il computer e il cellulare, le guerre extra-europee, la caduta del Muro di Berlino. Ernaux non insegue nessun cortocircuito memoriale che come la madeleine proustiana ridoni senso e felicità alla vita vissuta, anche se Proust viene invocato per due volte nel testo. I ricordi per l’autrice non sono lanterne magiche di cui è possibile riaccendere lo splendore, piuttosto oscuri grafemi che la mente ha registrato, come “la donna accovacciata che, in pieno giorno, urinava dietro la baracca di un bar al margine delle rovine di Yvetot, dopo la guerra, si risistemava le mutande con la gonna ancora sollevata e se ne tornava nel caffè”.

Inutile cercare il senso di questo come delle migliaia di altri ricordi – ma forse sarebbe corretto chiamarli fotogrammi per la loro consistenza soprattutto visiva – che scorrono nelle quasi trecento pagine del libro. I pranzi di famiglia, nelle occasioni festive comandate, e le fotografie scandiscono un procedere temporale che mano a mano si allontana dall’infanzia ancora legata al racconto collettivo della Seconda guerra mondiale, diventa sempre più intrecciato alle mode, al desiderio di sentirsi moderni, di ‘esprimersi’ secondo una vocazione insopprimibile al soggettivismo. Ma paradossalmente nel secolo che più di tutti ha celebrato l’individualismo Ernaux racconta la propria vita nella maniera più impersonale possibile: lei come milioni di altri individui ha beneficiato dell’emancipazione femminile, della pillola anticoncezionale, del divorzio, della panacea televisiva, lei come milioni di altri individui ha perso l’originalità di un proprio racconto nei grandi flussi di narrazioni esterne: le pubblicità televisive, i film, la musica pop, le mitologie dei personaggi pubblici di successo, quelle sono diventate le pietre miliari della propria memoria.

Con una scrittura che tende all’elenco e spesso si riduce alla singola notazione, alla frase sciolta da qualsiasi segno di punteggiatura che la leghi alla pagina, Ernaux mima il deposito incoerente e ‘irragionevole’ della memoria, di cui Gli anni è una trascrizione struggente proprio perché il molto che non viene detto – le passioni, l’ardore, il dolore, la rabbia, la vita – dietro il fissarsi statico delle fotografie e dei ricordi cristallizzati ci risucchia come il buco nero all’origine delle cose. Se “tutte le immagini spariranno” come recita la prima frase del libro con l’estinguersi della vita individuale, la scrittura è pur sempre uno dei più potenti mezzi per “salvare qualcosa del tempo in cui non saremo più.”

(L’articolo è uscito su La ricerca il 25 giugno 2015)

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