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Essere esposti

7 Maggio 2014
Antoine Watteu, "Gilles", 1718-19, Paris, Louvre
Antoine Watteu, “Gilles”, 1718-19, Paris, Louvre

Conosco quest’opera, nota come Gilles o Pierrot, del pittore Antoine Watteau da quando a sedici anni entrai per la prima volta al Louvre e non fu la Gioconda a catturare la mia attenzione, ma quadri come questo pieni di una malinconia e di una sottile ironia difficili da trovare nella coeva pittura italiana. Siamo all’inizio del Settecento, il quadro si dice sia stato dipinto per un amico del pittore, un attore della Commedia dell’Arte noto con il nome di Belloni, il quale a fine carriera, fra il 1718 e il 1719, aprì, a Parigi, un locale che portava il nome di “Au café comique” e il dipinto avrebbe dovuto svolgere da insegna. Quel che è certo è che, in seguito, funse da insegna per la bottega di un antiquario, tale Du Meunier che svolgeva la propria attività in place du Carousel e venne poi acquistato a inizio Ottocento dal barone Vivant Denon, primo direttore del Louvre.

Chi è il personaggio in abiti da scena che ci guarda con espressione trasognata, forse beffarda, un poco malinconica? E chi sono le figure che da dietro, come da quinte ribassate, che sono in realtà cespugli, spiano le sue spalle, lo deridono e incrociano il nostro sguardo? Potrebbero essere ritratti di Belloni e dei suoi compagni di palcoscenico, qualcuno ha ipotizzato che sia un autoritratto del pittore stesso.

Quello che mi ha sempre colpito di questo quadro è la nuda esposizione di una persona che è anche un personaggio (veste panni da teatro), coi suoi abiti candidi e troppo abbondanti, le mani appoggiate sulla parte anteriore delle cosce e chiuse in pugni imbarazzati, i piedoni fasciati in scarpe col fiocco, le larghe spalle lasciate cadere, non è di certo un attore baldanzoso e fiducioso nelle proprie capacità di incantare il pubblico, di fargli credere storie, piuttosto un essere umano consapevole delle molte maschere dell’esistere e del gioco di rispecchiamento del teatro.

Gilles ci guarda e si espone al nostro sguardo, con il candore di chi sa che così si arriva alla verità. Guardarsi e lasciarsi guardare, anche quando gli altri non capiranno, derideranno, insulteranno.

È la metafora dolceamara di tutte le vocazioni e professioni artistiche: non si sfugge al giudizio, allo sguardo, anzi bisogna aver la docilità e il coraggio di sostenerlo. Solo così la fatica dell’arte, della commedia e dell’artificio, hanno un senso, e per Watteau questo senso non era una trionfante dichiarazione di successo, come ci aspetteremmo oggi, ma un’intensa ammissione di umana fragilità.

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