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Il sapere del romanzo

3 Febbraio 2017
Claudio Parmiggiani, "Scultura d'ombra"
Claudio Parmiggiani, “Scultura d’ombra”

La rivista Odradek dedica un numero al romanzo e alla conoscenza, questo è il mio contributo che trovate per intero al link sottoindicato. Ne riporto qui l’incipit.

Spesso mi sono posta la domanda se i romanzi servano a conoscere e che tipo di conoscenza sia quella che eventualmente offrono. È una domanda che mi faccio come lettrice e come autrice a mia volta. La risposta, curiosamente, non è univoca a seconda che prevalga l’una o l’altra parte. Come lettrice sento ancora vera e autentica l’orgogliosa affermazione del valore ermeneutico e conoscitivo del romanzo dichiarata da Balzac nell’Avant-propos alla Comédie humaine (1842): il romanziere sarà come lo storico indagatore dei fatti, delle leggi e degli usi dei popoli ma, più dello storico – e come il poeta e il filosofo – cercherà di scrivere la storia del cuore umano e dei costumi e delle passioni, mirando dunque a rinvenirne le cause.

A un secolo e mezzo di distanza mi sembrano parole sensate e al tempo stesso spropositate nella loro ambizione, eppure la letteratura occidentale continua a essere percorsa in gran parte da questa ambizione: muovere da storie di uomini e donne storicamente collocate, in un certo tempo e in un certo spazio, per attingere a una sfera di significato più universale.

Leggendo Alice Munro imparo a conoscere la condizione femminile nel moderno Canada prima e dopo la seconda guerra mondiale, ma anche il peso dei giochi di ruolo fra i sessi e nella costruzione della propria identità; leggendo Javier Marías o Javier Cercas mi rendo conto di come la guerra civile spagnola abbia congelato in una dittatura senza appello, per quarant’anni, un paese che fu viceversa immune assai più a lungo di noi dal fascismo; leggendo John Updike esploro la ricchissima gamma psicologica di un mondo liberato dal puritanesimo sessuale e morale ma non da un ordine simbolico ancora patriarcale; leggendo John Coetzee mi confronto con il senso di colpa e la violenza generati da secoli di colonialismo in Sud Africa e così via, solo per citare alcuni nomi noti della letteratura mondiale.

La natura ibrida e polimorfa del romanzo si è dimostrata infatti un contenitore molto duttile lungo tutto il Novecento, e ancora nel secolo di cui viviamo la seconda decade. Nonostante se ne proclami periodicamente l’agonia o la morte imminente, se non già avvenuta, la scrittura romanzesca ha avuto una straordinaria espansione grazie alla propria capacità di fagocitare il saggio, il reportage, la documentazione, la riflessione filosofica e scientifica e soprattutto grazie al fatto che ha saputo rappresentare con dignità letteraria le vite di persone comuni, nelle quali con facilità e naturalezza ci identifichiamo tutti noi che da diversi decenni viviamo in sistemi politici democratici, nei quali fra i tanti diritti del cittadino ha trovato posto anche il diritto al romanzo, al racconto di sé e della quotidianità.

Come scrittrice, tuttavia, trovo queste ragioni assai meno esaustive. Sono certa infatti che esistano altrettanti saggi o prose non romanzesche che mi farebbero, o mi hanno fatto, conoscere quelle realtà con la medesima precisione. Inoltre nell’era digitale anche la rete è fonte di un flusso costante di informazioni e narrazioni, non sempre attendibili, ma pressoché sterminate. E quanto alla rappresentazione del quotidiano o all’espressione di sé i social network sono vasi di straordinaria capienza, quasi lo sbocco naturale dell’espressivismo e dell’individualismo che improntano l’atmosfera in cui siamo immersi.

Nei social network si può trovare di tutto, e tutto ha una sua legittimità verbale, visiva, e soprattutto – cosa forse non abbastanza valutata – scritta, ossia destinata a durare, destinata ad avere un pubblico; quanto e come tali scritture possano estendersi, sono termini molto variabili, caso per caso, e per certi aspetti ancora imprevedibili ma che non possono essere ignorati quando ci si pone la domanda: che tipo di conoscenza mi aspetto da un romanzo?

Se dovessi cercare un segno distintivo della conoscenza che deriva da un romanzo direi che è nel piacere a essa associata. Un piacere che scaturisce innanzitutto dai mille possibili giochi del linguaggio, dal fatto stesso che il linguaggio crea il mondo e può disfarlo, dall’infrazione delle regole come Roland Barthes teorizzava nel suo Le plaisir du texte: «L’écriture est ceci: la science des jouissances du language», ma anche da qualcosa di più primordiale ancora: la mimesi della realtà come fonte di piacere.

Continua qui: http://zetesis.cfs.unipi.it/Rivista/index.php/odradek/issue/view/3/showToc

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