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Beppe Sebaste. Il Novecento come museo di oggetti smarriti

Recensione al libro: Beppe Sebaste, Oggetti smarriti e altre apparizioni, Laterza, 2009

Pubblicato nella collana di ricognizioni geografico-antropologiche “Contromano” (Laterza), il libro di Sebaste parla di oggetti persi, trovati e dati a pegno, di persone intraviste nell’approssimazione di situazioni di precarietà − la strada, il campo rom, l’alloggio abusivo in mezzo a una pineta, il monte dei pegni − di tracce interrogate come indizi, gusci esistenziali in cui la vita ha preso forma per essere poi abbandonata e proseguire altrove. Gli oggetti smarriti sono innanzitutto sintomo, in senso psicanalitico, dello smarrimento individuale e collettivo di un Occidente oppresso da merci e ‘cose’, raccontato con una scrittura in equilibrio tra autoriflessività e neutralità descrittiva. L’autore va oltre il dato sociologico, attratto dal potere evocativo e fantasmatico di tutto ciò che si perde. Un filo rosso segue ciò che sta ai margini, scartato, rimosso, perduto; una marginalità intesa come limite che (ci) definisce. Sebaste con Derrida: “Nulla di meno marginale della questione dei margini”, e con Godard: “È il margine che fa la pagina”. Emerge una poetica del frammento che non si compiace di mera nostalgia − anche se la nostalgia come ‘essere altrove’ è sempre presente − ma è interrogazione sulla dialettica tra significanza e insignificanza, tra il permanere delle tracce e il disfarsi delle civiltà, il venire meno delle persone. Ne risulta un’archeologia del contemporaneo, dove risuona l’eco dei moralisti francesi di Seicento e Settecento, ma anche di Leopardi. Alle rovine delle civiltà passate, scaturigine di riflessione sul tempo e sul senso delle cose, si sostituisce qui l’oggetto smarrito. Il tono non è mai intimistico, la memoria è intesa come coscienza rispetto alle tante forme di disumanità e immoralità che passano principalmente attraverso la rimozione, la dimenticanza, l’occultamento. Una ricognizione prima di tutto linguistica: l’ufficio degli oggetti smarriti parigino si chiama “Bureau des objets trouvés”, all’opposto che in Italia, e “Poste en souffrance”, il vecchio fermoposta, è metafora della sofferenza dei gesti e dei messaggi che non trovano destinazione. La visita a una fabbrica di palloncini gonfiabili − oggetto effimero caro all’arte contemporanea da Piero Manzoni a Jeff Koons − dipana una riflessione sul loro uso propagandistico − in campagna elettorale ad esempio − e sul paradosso di affidare a uno scoppio le proprie sorti: la parola inglese boom, così temerariamente associata all’economia.

Le fotografie di Francesca Woodman, maestra di dissolvenza, messe in ardita e inedita consonanza con la fotografia di uno dei covi delle Brigate Rosse, inconsapevoli (forse) portatori di una estetica del fare perdere le tracce che se avesse avuto il coraggio di farsi gesto artistico, anziché idiozia politica, avrebbe cambiato la storia. Il libro chiude con il catalogo degli oggetti del volo abbattuto IH 870 Bologna-Palermo, i cui resti sono stati allestiti da Christian Boltanski per il Museo della Memoria di Ustica a Bologna. Elenchi di passeggeri, di bagagli, di effetti personali − ciò che è rimasto è una terrificante carcassa vuota − le parole non vanno oltre. A chi si domanda perché esista un simile museo Sebaste risponde con Derrida: “L’archivio non riguarda il passato, riguarda l’avvenire”.

(Alias, 23 dicembre 2009)

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