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Siamo gli unici a scrivere la storia?

16 Agosto 2016

stambecco che scala una diga

Una recente visita al Muse di Trento, uno dei più moderni e interessanti musei di scienze naturali che si possano visitare, mi ha sprofondato per giorni in riflessioni sui grandi numeri della Terra, delle ere geologiche e dell’evoluzione delle forme di vita. Milioni e miliardi di anni in cui migliaia di specie sono apparse e scomparse, si sono trasformate e contaminate a me fanno l’effetto dell’infinito leopardiano, ove per poco il cor non si spaura.

La novità dell’allestimento museale trentino è che rispetto alle raccolte di naturalia – animali imbalsamati, pietre, fossili, flora essiccata – che offrono in genere queste istituzioni secondo un’impostazione ancora sette-ottocentesca volta a suscitare la meraviglia, qui tutto è governato da una vera filosofia ecologica, l’unico pensiero che abbia senso proporre oggi come globale sul pianeta, ricominciando a pensarci come a un grande ecosistema interconnesso nelle sue varie parti.

Il Muse e un libro che ho letto di recente, La specie imprevista. Fraintendimenti sull’evoluzione umana di Henry Gee (il Mulino 2016), esprimono una posizione molto critica nei confronti dell’antropocentrismo che vorrebbe l’uomo al culmine di una supposta scala evolutiva e di un disegno teleologico. Semplicemente in natura l’uomo è un animale come gli altri all’interno di un’ininterrotta catena dell’essere, e perfino la sua supposta maggior intelligenza, se messa a confronto con le altrettanto incredibili capacità adattative e progettuali di altre forme di vita, pone seri dubbi sulla gerarchia che la narrazione umana fa del cosmo in modo unilaterale.

Piuttosto poiché non ci è dato sapere cosa pensino di noi gli animali e ogni altro essere vivente, quello che non smetto di domandarmi senza trovare una risposta soddisfacente è: la nostra unicità consiste forse nel tracciare incessantemente la nostra storia, nell’aver bisogno costante di storie che ci rappresentino e lascino testimonianza?

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