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Intervista a Daniela Brogi

Articolo: Intervista a Daniela Brogi, autrice de Lo spazio delle donne (Einaudi 2022), Sette, 15 aprile 2022

Partiamo dal titolo: Lo spazio delle donne. Lei porta molti esempi tratti dalla letteratura con cui ribadisce l’istanza espressa da Virginia Woolf di avere una “stanza” per sé, affinché una donna possa esprimere il proprio talento artistico, sottraendosi all’incombenze domestiche. In realtà, Woolf usa la parola room che significa anche spazio. Possiamo dire che dalla ‘stanza’ allo ‘spazio’ ci sia di mezzo la necessità per le donne di uscire fuori, di essere in una dimensione sociale visibili e non più trascurabili?

Sì la stanza e lo spazio pubblico sono due modi e due mondi entrambi importanti e da riavvicinare, proprio come fa capire A Room of One’s Own, il famoso saggio di Woolf pubblicato per la prima volta nel 1929. Questo libro è anche uno dei testi con cui ho più dialogato nello Spazio delle donne, ripensando alle molte possibilità di riflessione intorno alla condizione storica delle donne che proprio l’immagine dello spazio permette di percorrere, in senso tanto privato e interiore quanto pubblico e esteriore, tanto dentro quanto fuori, proprio come succede quando leggiamo Woolf. “Room”, infatti, è una parola dai molti significati, ma questa ricchezza in parte si perde passando alla traduzione italiana, perché in inglese significa stanza, camera, ma anche spazio; e lo spazio, come habitat dell’identità, come posto dove poter dire “io”, è sia fisico, sia simbolico, perché è l’insieme delle condizioni che rendono possibile, visibile, o pure guardabile, proprio nel senso di “accettabile”, un’esperienza. Non è l’angolo dove nascondersi dal mondo, ma il posto che si può avere al suo interno.

Sono stata addestrata a non aver talento” la battuta pronunciata da una giovane donna nel film I segreti di Filadelfia (Vincent Sherman, 1959) che lei riporta cosa ci dice della condizione femminile?

Che la condizione femminile è una condizione storica, prima di tutto, e in quanto tale va trattata quando si ragiona di cultura o di disuguaglianze. È vero, quel film è del 1959, ma non tutto è cambiato, e soprattutto non dappertutto. Lo spazio delle donne, come prospettiva critica è anche il campo di confronto con culture e identità portatrici di istanze più che legittime, in altri campi, ma fortemente intrise di patriarcato. Attraverso gli assetti materiali politici e culturali, le donne sono state educate a avere il diritto di provare ambizioni lecite e socialmente ammirevoli quando si trattava di realizzarsi in compiti famigliari, di maternità, di cura. Altra cosa invece è stata l’espressione e l’affermazione di risorse proprie o addirittura creative. Così, per esempio, non potendo studiare, o non potendo trasformare i propri talenti in professionalità, le donne spesso non hanno avuto spazio, nel discorso e nelle pratiche pubbliche di riconoscimento; oppure svolgendo esistenze servili dentro sistemi patriarcali, la loro fatica domestica, o anche il lavoro che hanno svolto fuori di casa non ha contato. Le donne, in quanto soggetti sociali, nei secoli non sono state solo invisibili, come si dice di solito e come è vero, ma proprio inconsiderabili. Per recuperare queste vicende e per progettare modi diversi, la stanza e lo spazio pubblico non funzionano da livelli separati o in alternativa, ma diventano due dimensioni che dialogano e si completano, un po’ come quando ci ritiriamo così volentieri in un luogo appartato purché sia una scelta e non un destino imposto dalle circostanze e dagli altri.

Anna Banti nel racconto Le donne muoiono immagina una distopia in cui gli unici ad avere il privilegio della memoria sono i maschi. Nel suo libro Lei afferma: “Come matte, come sante, vergini suicide, malate, morte giovani, puttane, isteriche o ninfomani, come streghe, zitelle e bruttone: quasi sempre le donne che ce l’hanno fatta a non essere sommerse dall’oblio sono state consegnate all’immortalità a condizione di un ‘eccezionale stranezza di vita e temperamento che di fatto le ricollocava fuori dalla storia”. Come si rientra nella storia dopo esserne state ai margini per millenni?

Questo è uno dei punti su cui più mi interessava aprire una riflessione attraverso Lo spazio delle donne. Volevo provare a capire, cioè, come fare a recuperare il senso delle moltitudini e dei destini fatti fuori. Le donne sono state infilate nella pattumiera della storia persino quando erano portatrici di un eroismo speciale, ovvero di un destino “anomalo”, per così dire, che proprio perché incarna una condizione di eccezionalità, di fatto non infrange ma riconferma il principio per cui le donne, a meno che non siano strane, non sono presenze significative da includere, raccontare, rendere memorabili. In letteratura (ma il discorso vale anche per il cinema e per molti altri ambiti) non solo Banti, ma Atwood (con Il racconto dell’ancella) e molte altre autrici si sono servite proprio della distopia, vale a dire dell’invenzione di mondi paradossali e indesiderabili, per scrivere della situazione tanto assurda quanto reale in cui si è trovata per secoli e secoli metà dell’umanità. E dunque: come si fa a restituire il senso di metà della storia così fatta fuori? Per esempio, smettendo di trattare questa situazione come questione femminile, nel senso di riguardante solo le donne; e servendosi, quando si compongono le storie, di punti di vista mobili, capaci di interrogarsi non solo su quello che è entrato nell’inquadratura del racconto, dei discorsi, ma cosa è rimasto fuori, e perché.

Nel suo libro con molta accortezza e altrettanta franchezza affronta la paura del femminismo sia da parte degli uomini sia da parte delle donne. Su che cosa si appoggia questa paura che a volte diventa autentica avversione?

Anche qui ci muoviamo spesso nei territori surreali del paradosso. Quello per cui, quando accade un femminicidio, può capitare di incontrare articoli dove la percentuale di casi in cui ci si affretta a prendere distanza dal femminismo (di solito con frasi ad effetto buttate là, senza nessun amore di sintassi) è molto più alta delle volte in cui si pronunciano con chiarezza termini come maschilismo, patriarcato, sessismo, tutte quelle parole, insomma, che compongono principalmente la cultura della violenza sulle donne. Perché succede? Perché persone anche di cultura usano ancora così tanto, o persino spavaldamente, femminismo come contrario di maschilismo? Per incultura, per paura, per sessismo, per misoginia. Bisogna avere il coraggio di dire queste verità, che non sono opinioni, ma dati di fatto.

Ho sempre pensato che una donna non avrebbe mai potuto scrivere un poema epico – il genere che per secoli è stato considerato principe – perché non poteva avere esperienza di armi e di guerra. Anche nelle forme e nei generi letterari e artistici è sedimentato il patriarcato?

Le forme attraverso le quali le opere reinventano il mondo sono sempre anche il risultato di contenuti di esperienza sedimentati. Pensare il mondo in terzine, come fa Dante nella Commedia, non è solo un artificio metrico, ma una maniera di formalizzare e cantare il proprio sguardo sulla verità, passando anche attraverso la selva oscura della propria esperienza. Il miracolo dell’arte ha molto a che fare con quella situazione di attraversamento, e dunque penso che sì, come dice Lei e come scrive anche Simone Weil nel famoso saggio sull’Iliade come poema della forza, la volontà di violenza e di sopraffazione sia una delle anime formali e simboliche del racconto epico, questo non significa affatto che non valga la pena di continuare a studiare e ammirare queste opere, anzi, ma che possiamo vedere anche meglio cosa fanno accadere.

Il sociologo francese Pierre Bourdieu ha sostenuto nel Dominio Maschile (1998) che l’ordine tutto a favore degli uomini si mantiene tale perché si esercita attraverso le vie simboliche della comunicazione e della conoscenza. Una violenza introiettata che Lei rinomina come “paternalismo benevolo”, indicando l’istruzione e il discorso pubblico come luoghi da decolonizzare. Quindi dovremmo cominciare dalla scuola?

La scuola è sempre fondamentale perché è il termometro della democrazia e della civiltà di un paese. Adesso che le nostre classi sono sempre più formate da studenti appartenenti a culture e etnie diverse, diventa anche più importante imparare e insegnare come abituarsi a riconoscere e decostruire i linguaggi, non solo scritti ma visuali: per le generazioni più giovani capire come funzionano le immagini, i racconti visuali, e anche come possono diventarne vittime è un’emergenza.

Lei smonta molti stereotipi sessisti volti a diminuire il ruolo e l’importanza delle donne. Sibilla Aleramo tirata in ballo sempre, e quasi solo, per le sue torbide relazioni, ad esempio. Uno dei modi più convincenti che usa è quello del ribaltamento. Ce lo vuole spiegare? Di solito quando le donne non sono state fatte fuori dalle storie, sono state ammesse nel club per lo più attraverso paradigmi pettegoli o parametri riduttivi. Si parlava prima di Anna Banti, grande autrice di romanzi come Artemisia o Noi credevamo. Perché quando sentiamo nominare Banti, di cui tra l’altro, si è letto così poco (proprio perché era una donna), come prima e unica notizia da ricordare si segnala il fatto che fosse la moglie del grande critico d’arte Roberto Longhi? Potreste mai immaginarvi un testo serio, magari su Caravaggio, dove come prima notizia rilevante di Longhi si dice che era marito di Anna Banti? E perché? Oppure, passando agli articoli sui giornali e a tutte le volte che le donne sono appellate solo col nome o soprannomi e epiteti imbarazzanti, potremmo mai immaginarci di leggere un articolo intitolato “finalmente faccio il papà!” per un campione sportivo ritiratosi dall’attività agonistica? Ecco ragionare sullo spazio delle donne significa anche farsi queste domande, per esempio, applicando la strategia del viceversa, interrogandosi su come la storia, i canoni, l’opinione pubblica, le scelte culturali che facciamo ogni giorno, sono il frutto di prese di posizioni, di prospettive, di rimozioni violente, di responsabilità, anzitutto verso chi arriverà dopo.

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