Nella bella postfazione all’ultimo libro uscito in Italia dello scrittore svedese Per Olov Enquist, Il libro delle parabole (Iperborea 2014), Sebastiano Triulzi richiama l’essere soggetto e oggetto al tempo stesso come condizione precipua dello stato onirico. Nel sogno siamo dentro a noi stessi ma anche esterni, agiamo e possiamo guardarci agire, sdoppiandoci in modo infinito, siamo prima persona e terza, senza che questo crei problemi, secondo quella bi-logica teorizzata dallo studioso di psicanalisi e linguaggio Ignacio Matte Blanco. Non così nella scrittura autobiografica che prevede l’uso rigoroso dell’io. Data la regola, ci sono ovviamente eccezioni. Una di queste è proprio il libro di Enquist, un memoir tutto scritto in terza persona, forse perché come dice il narratore riferendosi alla giovinezza: “Scrive ancora in prima persona, evidentemente non era così terrorizzato come dopo”.
Perché si dovrebbe essere terrorizzati dalla prima persona, dal sé? Me lo sono chiesta tante volte, visto che io stessa ho molte resistenze in tal senso. La risposta che mi sono data è che per alcuni ‘io’ è una costruzione troppo fallace e costrittiva per affidargli il peso intero della narrazione. Il rischio che ne esca falsata è una posta in gioco che ad alcuni scrittori pare troppo azzardata. Oscar Wilde lo ha detto in maniera più elegante e aforistica: “L’uomo non è se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera e vi dirà la verità.”
Ma poi credo ci sia un’altra ragione, o forse due: la memoria nutre la narrazione e la memoria fa e disfa di continuo, da una parte, dall’altra l’immaginazione, questo potentissimo muscolo, come lo definisce Enquist, lotta di continuo contro la realtà, e per me l’immaginazione rimane una delle poche forme di redenzione possibili.