Febbraio 2018, Bologna
Tanto vale dirlo subito: io con il fatto di tenere un diario ho sempre avuto qualche problema.
Mi ci sono messa a più riprese, specie fra i dieci e i quindici anni, accumulando una tale dose d’insoddisfazione da scoraggiarmi per il seguito a riprovarci, o quasi.
Mi sentivo goffa e innaturale a scrivere ‘caro diario’, non sapendo chi fosse questo ‘tu’ al quale mi rivolgevo, e trovavo insulsi gli elenchi di cose fatte, di avvenimenti, di persone viste con cui riempivo le pagine. Mi è capitato di ritrovarne uno con una copertina di velluto rosso, custodito in un armadio a casa di mia madre: si vede che mi stancavo facilmente ad annotare la quotidianità per quello che era, molte pagine si interrompono con dei disegni. Frustrata, perché non riuscivo a rendere con le parole l’incalzare della vita o il suo noioso ripetersi, viravo sul disegno un’espressività confusa, velleitaria e combustiva come la mia adolescenza.
Anche dei disegni ero tutt’altro che contenta per quanto, a rivederli adesso, mi appaiano più sinceri, forse perché meno ambiziosi. Con le parole era da tempo iniziata un’altra storia, un innamoramento che richiedeva di essere all’altezza, e io non mi sentivo mai all’altezza. Sia delle parole, delle frasi piene di significato che scoprivo nei libri, sia della vita stessa. Anzi, di quest’ultima soprattutto. Le mie parole rimanevano sempre nane per tutto quello che chiamiamo vivere.
Da adulta, quando nacque mia figlia, scrissi per un po’ con le modalità del diario, o forse volevano essere lettere di un epistolario. Era tutto così unico e potente che trascriverlo s’imponeva come una necessità fisica. Ma anche quello si rivelò un tentativo fallimentare. Non c’era verso di piegare la mia esperienza alla forma diaristica, ne venne fuori, diversi anni dopo, un racconto che ovviamente non era la storia della nascita di mia figlia o dei suoi primi mesi, eppure c’era molto di più il senso di un vissuto lì, in una storia inventata per tre quarti, che nelle pagine alle quali avevo cercato di affidare un pezzo di vita. Che dissidio angoscioso fra l’esistenza e la pagina scritta, soprattutto se mi ci mettevo di mezzo io. L’io, quell’ingombro prezioso che la letteratura a volte maltratta o, più spesso, innalza a certe glorie mitopoietiche, che con ogni evidenza non facevano per me, anche se a scrivere ci pensavo di continuo.
Non era finita lì ovviamente, come con tutte le cose alle quali ci annodiamo, con la faccenda del diario. Dopo un grave incidente d’auto che mi ha tolto l’uso delle gambe, mentre cercavo di descrivere al neurologo dell’unità spinale in cui ero ricoverata l’inferno di sensazioni che mi venivano da un corpo alienato e divenuto all’improvviso inconoscibile, mi propose di tenere un diario delle percezioni giornaliere e di darne una valutazione in base all’intensità, con una scala da uno a dieci. Storsi il naso, ma accettai, per disperazione più che altro, e per gratitudine per quel medico colto e sensibile che capiva la fame di parole che avevo. Ogni giorno, per aiutarmi a perimetrare quello che sentivo, mi somministrava una piccola lezione sulle deafferentazioni, ovvero la soppressione degli impulsi nervosi fra cervello e nervi periferici che, in seguito alla lesione midollare subita, era la causa delle parestesie, diffuse dalla cintura in giù, cioè dalla mia undicesima vertebra, maciullata dentro un fosso padano in mezzo all’erba unta di smog. Con un po’ di parole nuove in testa tipo assoni, motoneuroni e via dicendo, mi calmavo, almeno fino a mezzogiorno.
Non che nutrissi grandi speranze riguardo all’efficacia del diario, anzi ero abbastanza sicura che pure con l’aiuto dei numeri non sarei riuscita a rendere in maniera attendibile i dolori, i soprassalti, le scariche elettriche che mi attraversavano di continuo e contro le quali antidolorifici e antiepilettici erano poco più che acqua fresca. Mi ripromisi comunque di aggiungere alla valutazione dell’intensità dei dolori qualche descrizione che fosse più prossima e dettagliata.
Dopo dieci giorni, il diario era una sequenza di valutazioni fra otto e nove, con annotazioni che anche a distanza di poche ore da quando erano state scritte mi apparivano arcane: 25 maggio, dolore 9. Una spazzola per capelli, di quelle con i denti di ferro, striscia sulla parte anteriore delle mie gambe, cosce e polpacci. Il bacino è una vasca a perdere. 26 maggio, dolore 8,5. Perché le mie gambe sono piene di formiche che rodono e rodono? 28 maggio, dolore 8, appena un po’ meglio dopo la fisioterapia, ma è tutto il giorno che sono convinta di avere il coccige sudato, mi tocco e verifico, ma niente. Eppure, una ghiacciaia in fondo alla schiena. 29 maggio, dolore 7/8. Vuoto attraversato da lampi. Poi arriva l’ondata melmosa del miorilassante. Lioresal. Fango fino allo stomaco.
E via di seguito così.
Ricordo che lessi alcune di queste descrizioni al neurologo colto, sensibile e paziente che capiva la mia fame di parole e la mia ansia di trovare metafore per ciò per cui sapeva che non esistevano mai definizioni esatte, o quelle che c’erano erano insufficienti. Mi ascoltò e mi disse che il cervello, con il tempo si sarebbe abituato, avrebbe riscostruito uno schema corporeo per quelle parti che non muovevo più e sulle quali avevo perso anche la sensibilità. In un certo senso, e molto alla lunga, aveva ragione. In ogni caso i suoi occhi neri e lucenti, la barba corta e bianca, che s’increspava in qualche sorriso fugace, sono i pochi luoghi accoglienti in cui so di aver riversato lo smarrimento senza quartiere di quei mesi. Quanto al diario, non c’è bisogno di dirlo, lo mollai dopo quei dieci o quindici giorni in cui mi ero impegnata, col neurologo, più che con me stessa.
Quindi, cari amici di Nuovi Argomenti, lettori e redattori, io non sono così sicura che affidarmi questo compito sia stata una buona idea. Non garantisco. Anzi temo che, ben prima di arrivare alla fine dell’impresa, queste pagine avranno preso una piega strana e che i giorni, le cose, il tempo si saranno rifiutati per l’ennesima volta di entrare per quello che sono nelle mie parole, e allora portate pazienza, se nel bel mezzo di una lettura che avevate cominciato come un diario vi ritroverete da un’altra parte.
Imputatelo pure a una mia certa incapacità di stare dentro le cose per quello che sono senza scavarle, guardarle da una prospettiva che non sia solo la mia, sdoppiarle e moltiplicarle; che poi a pensarci è forse una delle ragioni principali che mi spingono a scrivere romanzi, e a immaginare molto più di quello che succede.
20 febbraio 2018, Bologna
Avrei dovuto subodorare che accettando la proposta di tenere un diario sarebbe arrivata una qualche coincidenza di malattie e ospedali. E infatti. Oggi dopo aver rimandato varie volte, e dopo aver provato con tutti i rimedi soliti, mi sono decisa ad andare dal medico. L’accentuarsi della colite e dei disturbi gastrointestinali, che da gennaio non mi hanno dato requie, a detta sua richiede un esame diagnostico. In fondo sono quattro anni che non fai un’endoscopia. Mi dice, come se fosse il tagliando per la macchina. Dopo la visita, chiamo direttamente il reparto ospedaliero per prenotare e, con mia grande sorpresa, mi danno appuntamento per il 3 di marzo, si è liberato un posto proprio ora, con una disdetta. Ho solo otto giorni per congetturare le cose peggiori. Otto notti in cui convivere con l’ansia. Temevo ben di più. Attraverso la piazza dove la fontana è spenta ma nella vasca si è raccolta molta acqua che, in realtà, è neve sciolta. Forma uno specchio nero e quasi immobile. Mi sporgo e vedo la mia sagoma contornata dai rami chiazzati e spogli dei platani. Non ho poi una brutta cera, tutto sommato. Considerato che è inverno, che non nuoto da tre mesi, e che non ho nessuna ragione per essere particolarmente allegra o sorridente.
A pranzo avevo appuntamento con Bettina, venuta in treno da Reggio. L’inverno è decisamente la sua stagione. Bionda e rosea, ha la pelle tesa e fresca come un bambino. E diventa ancora più rosea quando entriamo in un posto riscaldato per mangiare. Una specie di Caesar salad, lei, gnocchetti al pomodoro, io. È un posto affollato e anche piuttosto rumoroso. Ma questo non scoraggia le nostre chiacchiere. Parliamo di lirici greci che Bettina spiega ai suoi studenti di liceo e di amore, insomma di una relazione amorosa. Il tutto è un po’ kitsch, forse. Non lo so. Anche i greci antichi avranno parlato di amore fra di loro e chissà in quali termini. Forse con le parole del mito, mentre noi usiamo quelle della psicologia. Comunque, c’è sempre dell’affanno. All’ultimo gnocchetto avverto quelle spiacevoli contorsioni della pancia che mi perseguitano. Mi sento l’ospite di una vita che non conosco, che avviene a livello cellulare, nel dialogo fra gli organi interni che mi esclude e che mi sopravanza di gran lunga.
22 febbraio 2018, Bologna
Continua a nevicare, poi piove, la neve si scioglie ma subito dopo nevica di nuovo, va avanti così dall’inizio del mese. Sembra di stare dentro a quelle sfere trasparenti, con i trucioli di neve finta, fatti di polistirolo: la mano di qualcuno continua ad agitare e giù con la neve. Il ripetersi di questo scenario accentua certi pensieri fissi: il mio mal di pancia e tutto quello che può starci dietro, l’impasse politica che presagisco dopo le imminenti elezioni, le ragazze trucidate a Milano e Macerata. Rimbalzo da un pensiero all’altro, faccio ricerche su internet, mi faccio traviare dalla lettura di pessimi articoli di cronaca, sondaggi, diagnosi mediche. C’è un collegamento fra queste ossessioni?
A dire il vero no. Se non un senso di impotenza contro cui la razionalità può ben poco. E all’impotenza si accompagna l’estraneità. Perché devo addomesticare il luogo dove abito, il mio corpo, sempre pronto a farmi qualche scherzo? Perché andrò a votare una sinistra che non mi rappresenta e che – ci potrei giurare – perderà? Perché le donne sono così spesso trattate come Barbie da fare a pezzi? E poi vilipese sui giornali: oche, sciocchine.
Alla ragazza di Macerata mancava il cuore, non era con il resto dei pezzi nelle due valigie; la mafia nigeriana, ben presente in Italia, pare gestisca un traffico di organi. Gli autori di quello scempio erano nigeriani. La ragazza di Milano era ospite di un uomo già noto per aver adescato ragazzine. C’è un prima in queste storie. Altro che oche o sciocchine. Certo, le parole fanno anche le cose. Ma prima, quando doveva esserci una rete di servizi e di umanità che poteva salvare queste ragazze, in quel prima come ci si arriva, coi fatti o con le parole?
Allo stesso modo, io faccio yoga per calmare la mia pancia, e respiro meglio e mi rilasso. Ma prima, quando e perché il mio corpo se ne va per i fatti suoi, subisce e patisce, senza che io riesca a farci un granché? Quanto alla politica, le parole sembrano non avere più nessuna presa, scollate come sono dai fatti. A volte tolgo l’audio ai discorsi in televisione di Renzi o Salvini, mi concentro sulla mimica facciale e quella delle mani. Non ci vuole un genio della fisiognomica per capire che mentono. Eppure, quanta forza in queste menzogne.
A fine giornata mi domando cosa spinse Rimbaud a mollare tutto e a partire avventuriero per l’Africa. La sfiducia nelle parole?
28 febbraio 2018, Bologna Verona
Nevica di nuovo, grossi fiocchi che sembrano fazzoletti. Parto per Verona dove ho un incontro al Circolo dei Lettori. Arrivo a fine pomeriggio, è già quasi buio e freddissimo. La bellezza marmorea di questa città è perfino più inscalfibile di notte. Non è solo l’arena con il suo cerchio panciuto, ma sono gli archi, le pietre sopravvissute dell’antica colonia romana ad avere una forza che produce contrasto e si accresce a contatto con l’architettura gentile e ricamata del Gotico. L’incontro fa parte di un ciclo che s’intitola “La cura sono io”. Mentre rispondo alle domande, sento come una specie di rimprovero da parte della mia pancia, come se non la stessi raccontando giusta.
Il dialogo con il pubblico invece mi conforta, stiamo scambiando qualcosa. Poco a poco la pancia s’acquieta. Non esistono solo le sue ragioni.
Dopo l’incontro, mi portano a mangiare in una pizzeria dove fanno diversi tipi di pasta e di guarnizioni creative. Optiamo per la soluzione degli assaggi, per non perderci nulla, ed è tutto molto buono. Valeria, direttrice del Circolo dei lettori, conclude che questa però non è pizza. Le do ragione. Ma se non è pizza, cos’è? Focaccia. Quelle che abbiamo mangiato stasera sono deliziose focacce farcite con gli ingredienti che vanno di moda adesso: pesto di rucola, avocado e alici, zucca e formaggio.
Quando finalmente realizzo questa cosa delle focacce, ci tengo a dirlo a Valeria. Non è che si possa vivere in una continua mistificazione delle cose.
1 marzo, Verona Bergamo
Mi sveglio in albergo, e nevica sempre. Accendo la televisione, cosa che non faccio mai a casa, ma in viaggio sì. Davvero strano, rifletto, come se avessi bisogno di sentire il rumore del mondo. Ascolto per una decina di minuti un programma in cui si parla della ragazza di Milano accoltellata dal tranviere. Majorino rilascia una breve intervista e dice, fra le altre cose, che il Comune pagherà funerali e sepoltura. Aveva un padre e una madre, ai quali era stata sottratta dai servizi sociali, per poi essere cresciuta in varie comunità, come il fratello, del resto, che ha solo un anno meno di lei. Scendo a fare colazione rimuginando su questi fatti e mi domando quanti altri italiani lo stiano facendo, e se sia voluto che un servizio del genere vada in onda alle otto del mattino, mentre molti hanno appena lasciato il sonno e stanno facendo colazione.
Mi domando se anche con il corpo avviene che una parte, la più debole, accumuli in solitudine anni di malessere e infelicità per poi esplodere e per quale ragione il resto dei tessuti non intervenga prima della degenerazione, o se queste cose avvengano all’improvviso, senza che ci si possa fare nulla. Non che io creda che abbia molto senso continuare a sovrapporre le cose come sto facendo, ma è la passività a spaventarmi: passivamente prendo atto dei malfunzionamenti di parti di me, e passivamente assorbo notizie dal mondo, che siano ammazzamenti o slogan elettorali.
A Bergamo dove arriviamo dopo un’ora di macchina, sempre sotto una neve fitta e bagnata, decidiamo di avventurarci nella città vecchia che è bellissima e costruita come una serie di cerchi concentrici, di fortificazioni e porte. Le porte sembrano di epoca settecentesca e napoleonica, ma alcune devono essere preesistenti, si aprono su piazze che danno respiro, mentre le strade si fanno via via più strette mano a mano che ci si avvicina al duomo. Parcheggiamo su un’erta con il ciottolato per entrare in S. Maria maggiore. Ciottoli e neve sono una maledizione per le ruote della sedia, Sergio decide che è meglio andare all’indietro, così evito anche di spaventarmi per la pendenza, chiudo gli occhi e ascolto il crepitio della neve schiacciata. Nonostante il disagio e il freddo, è bellissimo. Così entro in chiesa con le ruote tutte piene di neve che si stacca a blocchi, girovagando fra le cappelle. Dentro la temperatura è quasi uguale a quella di fuori, si gela. Riprendiamo la macchina anche se il tratto è breve, si tratta di girare intorno alla cattedrale per arrivare sul lato della cappella Colleoni. Lascio che Sergio scenda armato di macchina fotografica, io mi accontento di guardare, stando in auto, la facciata che è un pizzo di marmo rosa e bianco avvolto da una bufera di neve. Ho voglia di rientrare in albergo, scaldarmi e prepararmi per l’incontro del pomeriggio, che è con un gruppo di lettura e una parte della giuria del premio di cui sono finalista.
Avevo già sperimentato l’efficienza dei bergamaschi un mese fa, quando ero stata invitata al festival Presente Prossimo e anche stasera non mi hanno deluso. Alla biblioteca Tiraboschi, nonostante il tempo da lupi, c’erano almeno una settantina di persone, e la cena con gli organizzatori e sostenitori del premio è stata molto divertente. Flavia, la segretaria, è una donna di grande spirito. Negli anni ha raccolto aneddoti sugli scrittori da farci un album illustrato: ascoltarla mi fa ricordare che appartengo a una categoria capricciosa, per quanto attraente, come certi uccellini esotici che uno può aver voglia di allevare, ma che si rivelano delle vere e proprie seccature perché hanno sempre qualcosa che non va, ora il cibo, ora la temperatura, ora la luce.
2 marzo 2018, Bergamo
L’organizzazione del premio prevede che oggi incontri tre classi di liceo.
Mi sono svegliata in preda al panico, pensando che domani ho l’esame da fare, poi a colazione mi sono distratta ascoltando i discorsi di una coppia nel tavolo di fianco, non stanno insieme sono colleghi di lavoro in trasferta. Lei è giovane, trantacinque anni su per giù, lui una cinquantina. Lei dice che si addormenta sempre quando viaggia, in treno e in aereo. Comunque sia, alle sette e mezza è truccata di tutto punto e ha già finito due kiwi e bevuto tre tazze di caffè: l’efficienza di chi dorme bene, mi dico, covando la solita invidia dell’insonne.
Niente televisione stamattina. Non c’è tempo. Nevica ancora e alle nove mi aspettano in un liceo scientifico. Parlare davanti agli adolescenti è una cosa che mi fa sentire messa alla prova. Conosco la diffidenza, la sterminata ingenuità, le sterzate improvvise di questa età feroce. Mia figlia avrà diciotto anni alla fine di maggio. L’incontro si svolge in un auditorium che è troppo grande per poter essere scaldato e così siamo tutti incappucciati con piumini e sciarpe. I ragazzi sono più audaci delle ragazze, su alcuni volti aleggia uno stordimento ormonale che mi sembra difficile scuotere, su altri una curiosità impertinente che non mi dispiace. Ci rimangono male quando dico che è molto difficile mantenersi scrivendo libri, e che in genere per campare si fanno mille altre cose legate all’editoria, oppure proprio un altro mestiere. Com’è dura a morire la leggenda dell’artista! Hanno letto un mio racconto, presente in un’antologia curata da Filippo Tuena. Ricostruivo l’incontro fra Bob Dylan e Scarlett Rivera, la violinista che lo accompagna nell’album Desire. Hanno capito che in ballo c’è una svolta del destino e che Scarlett poteva anche solo per un soffio non incontrare affatto Dylan. Una carriera costruita su un evento del tutto fortuito e casuale li affascina e li spaventa. Meno male, penso. Quando suona la campanella e il nostro incontro finisce, per loro è la ricreazione, non fanno in tempo ad aprire la porta che dà verso l’esterno che una serie di palle di neve si abbatte, sono i compagni che li aspettano fuori. Che bello avere sedici anni e la neve in mano!
Il ritorno da Bergamo a Bologna è un’odissea che dura quasi cinque ore, molti tratti dell’autostrada sono chiusi per quello che alla radio chiamano il gelicidio, nevica, tira vento a raffiche, e sembra di essere in Siberia. A Sergio diventano gli occhi rossi nello sforzo di stare concentrato sulla guida. Tutto è bianco e grigio, e adesso non ho più niente a cui pensare se non l’esame di domani. A dire il vero ci sarebbe il libro che devo finire, ma in questo momento Calvino, Volponi, Moravia e tutti gli altri mi sembrano lontani come stelle nel cielo invernale.
3 marzo 2018, Bologna
Entro in ospedale felice di sottrarmi alle raffiche di vento gelato. C’è una marea di gente in attesa, ma non si capisce se debbano fare la gastroscopia, la colonscopia o che altro. Però è davvero una ressa. La solita maleducazione italiana: se non sei abituato al rispetto delle leggi, non lo fai tu per primo e pretendi connivenza, lamento condiviso. Imprecazioni contro gli infermieri e i dottori, qualcuno sostiene che non è vero che una delle macchine si è rotta e per questo c’è così tanta fila.
Detesto situazioni del genere, mi fanno rinnegare la mia nazionalità e perfino la mia lingua piegata a così tante infamie. Il fatto di essere ammalati, o bisognosi, non dà il diritto a nessuno di presumere la maggior fortuna, o peggio, la malafede altrui. Comunque, c’è un vantaggio ad avere sempre una propria sedia sotto il culo: ti metti a leggere dove ti pare. E così mi isolo tuffandomi ne Il lanciatore di giavellotto di Volponi, che sto rileggendo a dire il vero, la prima volta lo lessi all’università. Su Volponi devo preparare un seminario al Gabinetto Vieusseux di Firenze per aprile, ma ci lavoro da un pezzo, siccome è un capitolo importante del libro temerario che sto scrivendo. Il libro temerario, ormai lo spaccio a tutti così. Perfino a me stessa.
Leggo per dieci minuti.
Fascismo, cazzi duri a destra e sinistra, voyeurismo, dolore e dolore insomma per quanto sia splendido Il lanciatore di giavellotto non è proprio la lettura che mi ci voleva. Cerco allora di visualizzare il peggior esito possibile dell’esame, la necessità di un intervento, la forza con cui mi dovrò preparare al prima e al dopo, quando finalmente l’infermiera mi chiama. Ad eseguire l’esame è lo stesso medico che già mi ha visitato in passato e questo mi scalda il cuore. Mentre mi spoglio ho la certezza irrazionale che non sarà niente di grave. Il dottore mi dà un buffetto e mentre mi infila la sonda mi stringe una spalla, quasi un massaggio. Bisogna essere dotati di autentica empatia e di garbo per fare un gesto così, ci vuole così poco a diventare inopportuni. L’esame dura poco e io riesco a non pensare a quasi niente, ogni tanto sbircio le immagini sul monitor che mi fanno lo stesso effetto della voce che raccontava l’ingresso di Aladino nella grotta magica, nelle fiabe registrate che ascoltavo da piccola: terrore e meraviglia.
Quando sono già rivestita e ho riguadagnato la mia sedia a rotelle, il medico mi dice che il prolasso non è peggiorato, che i miei disturbi si possono curare con una terapia che mi illustra e prescrive. Allora non c’è bisogno di intervenire? chiedo per assicurarmi fino in fondo. Il dottore mi sorride e dice: no. Io poi a lei risparmierei qualsiasi altra cosa finché possibile, visto quello che deve avere passato.
Lo ringrazio e lo saluto, sorrido sulla porta. Mentre percorro il lunghissimo corridoio per arrivare all’ascensore penso a quello che mi ha detto, a quanto conti per me che un medico una volta tanto faccia lo sforzo di immaginare – non ci vuole molto facendo quel mestiere – cosa voglia dire essere sopravvissuta nelle mie condizioni, a un intervento durato più di dieci ore, alla duplice trasfusione, alle mille complicanze avute in seguito, alla minorità cui si viene consegnati. L’immaginazione non è solo un fatto individuale, unisce le persone. Anche per questo è una forza grandissima. Se tutti si esercitassero almeno due minuti al giorno.
4 marzo 2018, Bologna
Il giorno del mio quarantasettesimo compleanno coincide anche con quello di queste temute elezioni politiche. Tra l’altro, è il primo compleanno che ricordi con un freddo così cattivo e tanta neve. Andiamo ai seggi con una certa mestizia, il nostro seggio non conta – credo – nella media nazionale, siamo in una roccaforte, a mezzogiorno abbiamo già superato il 50% di affluenza e la sinistra non ha rivali, per quanto il M5S non sia messo male.
Pranziamo in un ristorante giapponese che mi piace molto, anche se il padre di Sergio, chiacchierando con i cuochi, scopre che sono tutti cinesi. Usciamo commentando che al giorno d’oggi è tutta una contraffazione. Mi ritornano in mente le pizze-focacce di Verona. Però abbiamo mangiato a quattro palmenti ed era tutto molto buono. Io e Matilde ci siamo pure rimpinzate di un mango a testa, che di per sé sarebbe già mezzo pasto, e per noi era solo il dessert.
Per ingannare l’attesa del risultato elettorale andiamo al cinema. Ma anziché Il filo nascosto per cui c’è troppa coda, ci tocca Lady Bird, che è carino, ma forse non è esattamente quello che avremmo voluto vedere.
A casa riprendo in mano Il lanciatore di giavellotto, pensando all’archetipo di una virilità tutta muscoli, repressione e fallocentrisimo, sulla quale Volponi e Morante hanno scritto due romanzi di fallita iniziazione ai sentimenti e al sesso, Il lanciatore e Aracoeli, che sono fra le cose più vere e strazianti del nostro Novecento. Romanzi usciti all’inizio dei gaudenti anni ottanta, non sarà un caso. Questa virilità, che non ha mai superato il complesso edipico, che nega il femminile e divide brutalmente le donne in madri idealizzate e puttane, è traghettata dal fascismo a oggi, se ne può ridere solo quando Antonio Albanese la cala nel luridissimo Cetto Laqualunque, per il resto si porta dietro una scia di dolore insopportabile.
I primi exit poll sono sconfortanti, vado a letto con il mal di pancia e stavolta so da dove viene. Corpo e mente hanno un loro accordo, paradossalmente, sulle questioni politiche.
5 marzo 2018, Milano
Prendo il treno alle 17,00 per Milano. Proprio mentre Renzi dovrebbe pronunciarsi pubblicamente sulla sconfitta, chiamiamola pure batosta, del Pd.
Fa freddissimo e non so cosa aspettarmi da questa cerimonia di premiazione al Teatro Manzoni. Il premio è dedicato alla memoria di Wondy, la giornalista Francesca del Rosso, e alla letteratura resiliente.
Durante la serata si sprecano le battute sul baraccone elettorale che non sembra ancora finito e sull’ingovernabilità del paese che si profila. Mi viene assegnato il premio della giuria, e ne sono contenta, ma la cosa più emozionante è che ho conosciuto Roberto Bolle e l’ho avuto di fianco per una bella oretta, in modo da deliziarmi della sua pelle diafana, così pura da sembrare trasparente e attraversata da luce, le lunghe mani che si tormenta, i piedi altrettanto lunghi. Anche nel suo respiro c’è il ritmo della danza che gli ha modellato il corpo, i gesti. Ci ripenso prima di addormentarmi e mi dà conforto.
26 marzo 2018, Bologna
L’ultima nevicata risale solo a una settimana fa, e forse ora finalmente abbiamo finito con l’inverno. Le gemme sugli alberi da frutto sono ancora chiuse e l’erba è slavata e ammaccata per il tanto carico di neve. Ho passato venti giorni a scrivere e studiare, venti giorni in cui non succedeva assolutamente nulla, non si formava nemmeno il governo, il mio mal di pancia attraversava fasi di latenza per poi ritornare tale e quale. Nulla di memorabile e una stagione che sembrava bloccata.
Ieri è entrata in vigore l’ora solare, e così alle sette di sera di oggi ero con Andrea in un bar affacciato su Piazza Verdi a bere uno spritz e c’era ancora tantissima luce, sul fianco del teatro comunale e sugli alberi. Alcuni studenti del suo corso di scrittura creativa, per il quale ho tenuto una lezione sul romanzo, ci hanno raggiunto. Avevano ancora molte domande. Nel locale la musica era fortissima, le loro voci piene di accenti regionali, si faceva fatica a parlarsi senza ripetere domande e risposte. A un certo punto gli studenti hanno cominciato a parlare di cose loro, e sono tornati giovanissimi e fin troppo vivi. Io continuavo a guardare fuori dalla vetrata grata per tutto quel chiaro, finalmente. Andrea mi ha detto: non ti sei accorta che quella ragazza si era innamorata di te?
Ho riso, dicendogli che romanzava. Ma all’uscita dal bar, mentre attraversavamo la piazza dove un sacco di gente faceva un sacco di cose – mangiare, essere seduta per terra, bere, cantare, suonare, parlare, fumare delle canne, limonare – mi è venuta in mente una frase della mia amica californiana Rachel “When spring comes in Bologna it’s all about sex”.
E così ho pensato che forse è tornata davvero Persefone dall’Ade e si può ricominciare a vivere.
2 aprile 2018, Bologna
In piazza S. Domenico io e Chiara guardiamo la fiancata della chiesa, tutta rosa e bianco, e chiacchieriamo. A pochi metri da noi una signora russa, una badante dico io, sta a gambe aperte seduta per terra, fuma e ha una bottiglia di birra in mano. Passano turisti, soffia un po’ di vento e l’aria è morbida. Arrivata la primavera, Bologna cede allo struggimento di chi ha patito una lunghissima lontananza, dal sole, dalla luce, dall’amore.
Ho capito finalmente cosa mi ha tenuto sempre lontana dallo scrivere un diario: la convinzione che quello che mi capita sia del tutto irrilevante, o meglio che possa avere un qualche senso solo se messo in relazione ad altri milioni di cose che accadono ogni istante nel cosmo e collidono o si tengono a distanza, ma fanno comunque parte del tempo che ci contiene, che è l’unico vero soggetto della scrittura. Allora forse per scrivere un diario bisogna abbandonarsi al tempo che passa, accettare l’insignificanza e andare avanti.
Anche di insignificanza bisognerebbe fare almeno cinque minuti di esercizio al giorno.
Ma torniamo alla primavera e allo struggimento. Oggi ho trovato questa frase di Gianni Celati, in uno dei suoi libri che amo di più, Quattro novelle sulle apparenze: “Nel nostro essere perduti noi aspettiamo che gli altri ci trovino, perché solo loro possono trovarci in tutto l’universo.”
È quello che mi auguro ogni giorno, di essere trovata, è quello che auguro a ogni essere vivente, a ogni lettore di queste pagine.
(Questo Diario è uscito sul numero 82 della rivista “Nuovi Argomenti”, 2018)