Le immagini non sono manufatti inerti dotati, nel caso delle opere d’arte, di alta concentrazione estetica e puri valori formali ma agiscono su di noi; creano una dimensione mediale autonoma come il linguaggio, ma a differenza del linguaggio appartengono al mondo organico, sono materia, un particolare tipo di materia che esprime e influenza il nostro mondo psichico e simbolico. Questa la tesi di fondo del poderoso volume di Horst Bredekamp (Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico, Raffaello Cortina Editore, 2015) che raccoglie anni di studi e la strenua volontà di riportare le immagini e l’atto del guardare all’interno delle più vive connessioni con l’estesa gamma umanistico scientifica del sapere umano e con l’etica, poiché se le immagini non sono solo ornamento e superficie, ma interazione dinamica fra chi le crea e chi le fruisce, allora inevitabilmente esse non sono mai scevre di conseguenze sull’agire individuale e sociale. La consapevolezza di tale status sarebbe alla base dell’ambiguo rapporto che Platone intrattiene con tutto ciò che è mimetico e legato alla raffigurazione: condanna da una parte, poiché le immagini nascondono la verità delle idee, necessità dall’altra perché forniscono un’esemplarità alla quale il ragionamento non attinge. L’impostazione platonica riecheggia secondo Bredekamp anche in pensatori contemporanei che hanno cercato di varcare la soglia di un limite posto dal filosofo greco, affacciandosi senza risolverla sull’autonoma vita delle immagini: Heidegger ne L’origine dell’opera d’arte (1936) e Lacan nel corso del séminaire del 1964; ma Bredekamp individua il rifiuto per la forza immanente delle immagini, ampiamente riconosciuto e teorizzato dall’antichità e dal Rinascimento, nell’Illuminismo sospettoso verso il pensiero magico e l’occultismo delle immagini miracolose che sudano, convertono, grondano sangue, si fanno corpo. Tuttavia più che con il secolo dei Lumi impegnato in una lotta di emancipazione del pensiero razionale e dell’autodeterminazione critica, per la quale possiamo solo essere grati, l’esortazione dello studioso tedesco a prendere sul serio il mondo delle immagini deve valere per il nostro presente affollato di immagini propagate a mezzo di media pervasivi e in grado di modellare la nostra percezione del mondo in modo determinante. La metafora, spesso abusata oggi, del ‘bombardamento di immagini’ sottende infatti una guerra, i cui contendenti sono da un lato la nostra capacità critica e la nostra conoscenza, dall’altro il potere di manipolazione che le immagini possiedono. Prova ne siano le fotografie e i video di guerra che dai vari Paesi in conflitto, in particolare dell’Oriente islamico, ci raggiungono ogni giorno. Si tratta di materiali mai neutri: per ognuno vi è una o più intenzionalità da parte di chi ne è stato creatore, e molteplici possono essere le reazioni degli spettatori, a seconda del grado di cultura, del posizionamento geo-politico, del contesto in cui ne avviene la fruizione. Ecco dunque che con un dispiegamento teorico imponente Bredekamp sostiene la teoria dell’atto iconico, “mentre la lingua parlata è propria dell’uomo, le immagini gli vengono incontro sotto il segno di una corporeità aliena: esse non possono venire ricondotte pienamente a quella dimensione umana cui devono la propria realizzazione, né sul piano emotivo né mediante azzardi linguistici. Una volta prodotte, diventano autonome e incutono ammirazione e paura, sono cioè oggetti capaci di suscitare sensazioni fortissime”. Per questa ragione Leonardo fa dire a un’opera di scultura coperta da un velo: “Non iscoprire se libertà/ t’è cara ché il volto mio/ è charciere d’amore”, la forza intrinseca dell’opera – l’enargeia di cui parla Aristotele nella Retorica – ha la capacità di legare a sé lo spettatore, arrivando perfino a togliergli la libertà.
D’altronde lo scambio fra organico e inorganico, fra vivente e inerte, risale alle primissime espressioni dell’uomo, e Bredekamp ne fa un esempio molto convincente, fra i numerosi che riporta, nella piccola Venere d’avorio, datata 40.000-35.000 anni fa e presente nelle collezioni universitarie di Tubinga, il cui modellato evidenzia realisticamente l’anatomia femminile ma è privo di testa, al suo posto una specie di gancetto: la Venere era probabilmente un ciondolo da portare al collo, chi lo indossava avrebbe fornito la testa alla riproduzione miniaturizzata del corpo. Testimoni ancora più interessanti sono le opere antiche e moderne che parlano in prima persona, dicono io rivolgendosi al proprio autore, committente e talvolta destinatario, dichiarando così una propria autonoma esistenza tanto più intrigante in quanto sia che si tratti dell’Apollo di Mantiklos (Boston, Museum of Fine Arts) del VII secolo a.C. o del Tu est-moi realizzato da Niki de Saint-Phalle nel 1960, si gioca sull’ambiguità e sullo scambio fra l’io, il tu e la terza persona che dovrebbe essere l’opera ma che finisce con il confondersi con lo spettatore. Impossibile non resistere dunque alla dinamica di profonda interazione che opere di questo genere – e lo sono molti ritratti fiamminghi quattrocenteschi, moltissime opere medievali recanti l’iscrizione latina “me fecit”, spade incise e armi. Bredekamp schematizza tre tipi di atto iconico: un atto iconico schematico, dove lo scambio fra vita e manufatto è determinante, vi appartengono le opere nelle quali si mima la vita, statue, tableaux vivants, automi, bioartefatti. Un atto iconico sostitutivo in cui l’accento è spostato sulla possibilità che il manufatto sostituisca il corpo, vi appartengono tutte le immagine derivate dalla Vera Icona, i simboli collettivi come le monete, le immagini diffamatorie, ma anche certa fotografia; in questo caso la partita si gioca più che sull’infusione di vita nell’opera sul problema dell’autenticità, sulla sostituzione del corpo vero con quello raffigurato e, dunque, sull’iconoclastia in contesti di guerra o di controllo del potere, come esemplifica la splendida incisione di Abraham Bosse del Leviathan di Thomas Hobbes (1651).
Infine vi è un atto iconico intrinseco che ha a che fare con il modellarsi della forma in relazione al nostro sguardo e di continuare ad agire anche a distanza e fuori dal proprio contesto, e che potrebbe essere magnificamente esemplificato dall’incisione di Claude Nicolas Ledoux, Coup d’oeil du thèatre de Besançon, (incisione tratta da L’architecture considerée sous le rapport de l’art, des moeurs et de la législation, 1804) e che trova supporto nella teoria warburghiana delle pathosformeln.
Se le categorizzazioni di Bredekamp possono sembrare talora racchiudere opere e problemi troppo vasti e articolati in uno schema rigido e difficilmente esaustivo, non si può ignorare né da parte degli storici dell’arte e degli intenditori di immagini, quanto dei semplici spettatori, la portata dello spostamento operato dallo studioso tedesco: l’atto iconico è l’ambito in cui principalmente, anche se non esclusivamente, si esercita l’uomo come animale simbolico, pertanto le immagini ‘non subiscono, bensì producono esperienze percettive e comportamenti”, da qui “si desume il diritto alla vita delle immagini, così come il dovere di prendersi cura di loro, di usarle, anche di criticarle”.
(La recensione è stata pubblicata sul sito de La ricerca il 1° ottobre 2015)