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L’anno che verrà

ArticoloL’anno che verrà, Corriere della Sera, 30 dicembre 2020

Diversi membri della mia famiglia, quella di origine e quella acquisita del mio compagno, sono nati durante la seconda guerra mondiale, fra il 1940 e il 1945. Ricordano gli sfollamenti, la penuria di cibo, le bombe sulle case e sui monumenti. Mi sono spesso domandata come fosse aver attraversato i primi anni di infanzia durante un conflitto bellico così lungo e provante; a giudicare dall’attaccamento alla vita e anche da una certa voracità, propria di quella generazione, verrebbe da dire che non se la siano cavata male. Ciò che mi stupisce ancora di più, in verità, è che siano nati proprio in quegli anni ossia che, mentre al fronte o sotto casa si pativa e si moriva, c’era chi lasciava aperta la porta sul futuro, ci scommetteva nella maniera più antica: facendo figli. Incoscienza, vitalismo disperato, istinto di sopravvivenza. Impossibile separare queste componenti.

L’anno che sta per finire registrerà un numero di decessi fra i più alti, se non il più alto in assoluto, della storia della Repubblica, soprattutto a causa della pandemia da Covid19. E non sarà compensato da nuove nascite, il calo demografico è una costante dei paesi avanzati, e dell’Italia in particolar modo. “Chi vuoi che abbia voglia di fare figli in questo momento?” Sento dire dai giovani, quelli che avrebbero l’età per farli o che hanno davanti a sé una prospettiva temporale in cui pensarci e decidere. Non starò qui a elencare gli innumerevoli buoni motivi per cui mettersi a fare figli ora possa essere un azzardo. Le nuove generazioni nascono, da qualche decennio, depauperate di mezzi economici, di risorse e soprattutto di possibilità: è sotto gli occhi di tutti. La pandemia non ha fatto che esacerbare la situazione. Ci manca solo che pensino ai figli che non possono permettersi. Ma il problema non è quello del riprodursi o del fare famiglia, il problema è dell’aver voglia. Desiderare. Questo 2020 ha azzerato il già scarso eros in circolazione. E per eros intendo proprio il dio greco capriccioso e creativo che spinge verso l’altro, che ci fa sentire mancanti, che ci fa uscire da noi stessi e che ci fa conoscere il diverso, amando.

Con quanta docilità e passività migliaia di studenti delle superiori e dell’università si sono adeguati alle chiusure delle loro aule, hanno fatto ritorno alle case di famiglia interrompendo quel minimo processo di emancipazione e di scoperta che lo stare fuori comportava. Non avrebbero potuto vivere insieme a gruppi? Negli anni settanta sarebbe accaduto di sicuro, e se fosse accaduto anche in questi mesi forse avremmo avuto meno giovani depressi, schermodipendenti e abulici. Forse varrebbe la pena interrogarsi su che cosa ci abbia reso così disabituati alle scomodità dell’autonomia e dell’assunzione di responsabilità. Con quanta remissività le donne sono tornate fra le quattro mura domestiche a gestire lavoro a distanza e figli. Con quanta costernazione e impotenza i docenti si sono sentiti imporre prestazioni rocambolesche dal ricevimento genitori on line a qualsiasi ora del giorno al dover segnalare i tragitti con tanto di codici sui mezzi pubblici dei propri allievi – ma non spetterebbe alle aziende dei trasporti che hanno gli abbonamenti? – Giusto per fare solo qualche esempio.

Non si poteva fare altrimenti, ci siamo sentiti dire. E ci viene ripetuto ogni giorno con numeri di morti, contagiati, terapie intensive e via discorrendo. In realtà, se c’è una cosa che abbiamo capito durante questi mesi, è che sono davvero pochissime le situazioni in cui non si può fare diversamente e che viceversa lo spazio del si può fare meglio è molto esteso. Basta averne voglia, essere percorsi da un desiderio che fa immaginare oltre, perché l’altra cosa che è risultata molto evidente è che, contrariamente a quanto il nostro sistema economico ci induce a pensare, ossia che là fuori, magari su internet, ci sia sempre disponibile a venir acquistata la soluzione ai nostri problemi, una soluzione pronta non c’è: dobbiamo inventarcela. Se la sono dovuta inventare gli scienziati che hanno creato i vaccini, ad esempio. Immaginare un mondo diverso richiede slancio, passione, eros. Quando a metà novembre ho visto studenti del liceo protestare per poter rientrare a scuola, ho provato un brivido. Ero con loro; finalmente qualcuno alzava la testa, non per negare la gravità delle circostanze, ma per ipotizzare provvedimenti diversi. Progettare richiede lo stesso grado di responsabilità che imporre limitazioni, anzi uno decisamente superiore. Alle restrizioni, per quanto faticose e nel caso delle relazioni umane innaturali, ci si adegua. Come abbiamo sopportato le domeniche senza circolazione dei veicoli durante le svariate crisi petrolifere degli anni settanta, così anche stavolta ci siamo adeguati a privazioni ben peggiori: vita sociale e culturale. Ciò di cui non ci dobbiamo privare è l’orizzonte che sta oltre. Una prospettiva più allargata, da comporre con pazienza e con un senso del tempo lungo che va oltre l’immediato cui siamo abituati.

Per questo mi sembra tanto importante che torni a essere coltivato il desiderio: eros porta con sé una carica eversiva, cerca ciò che non c’è, ridisegna il mondo, cambia le regole.

Rileggevo, qualche giorno fa, questi versi di Emily Dickinson:

L’acqua, la insegna la sete.
La terra – gli oceani trascorsi.
Lo slancio – l’angoscia.
La pace – la raccontano le battaglie.
L’amore – i tumuli della memoria.

Gli uccelli, la neve. È una poesia sulla dialettica della vita terrena, dominata dal contrasto e dalla compresenza dei contrari. Io la leggo anche come un invito a riammettere la negatività, come polo che ci spinge in senso opposto. Tutta la paura, l’allerta, il lutto, l’impotenza e la rabbia che abbiamo sedimentato in questo anno devono lasciare il posto al loro contrario.

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