John Flaxman, “Achille trascina il corpo di Ettore”, 1793 ca.
Che gli eroi dei poemi omerici piangessero dovremmo averlo imparato a scuola, forse anche solo leggendo i brani antologizzati dell’Iliade e dell’Odissea poiché innumerevoli sono le occasioni e le ragioni per cui Ulisse, Achille, Priamo, Ettore, Patroclo, Agamennone e tutti gli altri versano lacrime abbondanti, gridano e si disperano. Il loro pianto è, d’altra parte, così espressivo e pieno di sfumature che solo una rivisitazione attenta al contesto, ai rimandi interni e alla secolare tradizione intessuta nei poemi, può riavvicinarci al senso.
È ciò che fa Matteo Nucci nel suo Le lacrime degli eroi (Einaudi 2013) calandosi fisicamente nella geografia dei luoghi, prima ancora che nelle parole di quegli uomini che ci hanno trasmesso modelli di pensiero e comportamento. Dunque: nel Ceramico di Atene, dove Pericle proruppe in pianto davanti al cadavere del figlio Paralo, ucciso dalla peste; davanti alla porta dei Leoni, a Micene, sulla soglia di una città che contiene già tutta la tragedia degli Atridi; nella stradina in discesa che dalla Pnice porta al Pireo, percorsa da Socrate e Glaucone all’inizio della Repubblica, e chissà quante volte da Platone, dopo la morte dell’amato maestro; sotto le mura di Troia dove si svolsero i duelli mortali fra Ettore, Patroclo, Achille.
I luoghi fanno le storie e i luoghi sono depositi di memoria di cui si nutrono le storie; Nucci studioso del mondo greco, e narratore, sa bene che non possiamo capire il mondo antico senza riappropriarci dei suoi spazi, reali e dell’immaginario. Il pianto occupava un enorme spazio nel mondo omerico, essendo legato alla memoria, alla percezione della finitezza umana e alla definizione dell’identità. Hannah Arendt, in un fine passaggio de La vita della mente, sottolinea che presso i Feaci Ulisse piange al canto dell’aedo Demodoco perché sente parlare di sé in terza persona, l’oggettivazione da parte altrui delle proprie sventure è fonte di identità; Ulisse sa chi è proprio mentre si abbandona a quella scomposizione momentanea di ragione, controllo e corporeità che, fisiologicamente, è il pianto.
Tuttavia, a un livello più profondo, il libro di Nucci sembrerebbe attingere il suo innesco da una domanda implicita, la cui spia più evidente è nella dedica a Zdenek Zeman: siamo disposti a concedere altrettante manifestazioni di emotività ai nostri eroi di oggi, e a noi stessi? Tutti noi cresciuti nel divieto o nella riprovazione delle lacrime, specie se pubbliche, specie se piante da un uomo?
Questo divieto, che tanto ci separa dal mondo di Omero, è indissolubile dalla negazione e rimozione della morte che la società dei consumi e dell’edonismo ha innalzato a ideologia, come spiegava già Philippe Ariès nella sua Storia della morte in Occidente, ed è la ragione per cui andiamo ai funerali con gli occhiali scuri e ci vietiamo le lacrime, a volte perfino con gli amici. Eppure non è cosa di oggi.
Anzi, Nucci ci insegna che proprio dal padre del pensiero occidentale, Platone, scaturì il più forte anatema verso le lacrime, definite materia da donnicciole, non da uomini di governo. Se Platone in cuor suo si univa alle lacrime congiunte di Priamo e Achille, nemici stretti da un abbraccio di mortalità che comprende il figlio Ettore e l’amico Patroclo non meno che loro stessi, nel XXIV libro dell’Iliade, nella realtà del suo tempo il filosofo riteneva che per educare uomini adatti al governo quelle effusioni fossero da bandire.
E così l’età perduta iniziava già con Platone e sanciva la distanza da un mondo in cui gli eroi si misuravano nella loro grandezza anche, e soprattutto, per la maniera in cui accettavano la morte e il dolore: con calde lacrime di riconoscimento, di sottomissione allo scorrere di un flusso superiore, perché nelle lacrime – liquido vitale – c’era tutta la consapevolezza dialettica di avere un corpo ed essere un corpo (mortale).
A quanto argomenta Nucci, si può aggiungere che Platone avvertì il pericolo che le lacrime incrinassero il dominio razionale su quella sfera tanto problematica che era per lui il corpo, ed ebbe consapevolezza che il pianto come gesto sociale, al pari del riso, fosse un potentissimo elemento normativo.
Il grande trasloco verso la metafisica operato dal filosofo imponeva che si diffidasse di eruzioni emotive che riportavano con forza la psiche alle sue contraddizioni. Con la stessa ambigua distanza presa rispetto alla poesia, anche le lacrime per Platone dovevano essere una rinuncia sofferta ma necessaria; chi poteva garantire della loro autenticità, del loro contenuto di verità, del loro controllo?
E noi, non siamo ancora a interrogarci sul significato profondo, sul significato vero delle lacrime del Ministro del lavoro, Elsa Fornero, piante in pubblico all’annuncio della riforma del sistema pensionistico?
(Questo articolo è uscito su Alias il 23 giugno 2013)