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Leggere in carcere

ArticoloLeggere in carcere, Sette, 16 ottobre 2020

La prima volta che sono entrata nel carcere Rocco D’amato di Bologna, detto la Dozza, dal nome del quartiere periferico in cui si trova, era aprile avanzato ma il sole, insieme al giallo delle forsizie e delle margherite fiorite sul pratone antistante il parcheggio, è rimasto subito tagliato fuori dalla mia visuale. Superata la guardiola d’ingresso dove è d’obbligo depositare documento d’identità, cellulare e borse, è stato tutto un susseguirsi di sbarramenti, corridoi lunghi e freddi da cui s’intravedevano, attraverso finestre strette e collocate in alto, spazi rettangolari di aria, forse anche di terra non cementata circondati da mura. Il fuori da cui venivo, con il suo tepore primaverile, si è dissolto tra un cancello blindato e l’altro. Non li ho contati, ma mi sono sembrati infiniti. Quando siamo arrivati in una delle sette biblioteche del penitenziario, io e il gruppo di studenti dell’Università coordinati da una docente che anima il gruppo di lettura del carcere, ho pensato: almeno qui ci sono i libri. Come se potessero scaldarmi e proteggermi, dal freddo che m’invadeva e dalla voglia di scappare. Tanti libri ben ordinati nelle scaffalature addossate ai muri, frutto di donazioni, perlopiù, come mi dirà l’operatore culturale che lavora all’interno del carcere e che ci accoglie nella saletta.

I detenuti arrivano poco dopo, sono una decina e solo uomini poiché questa è la sezione maschile e poiché le attività culturali o ricreative non prevedono, come tutto il resto, che uomini e donne si mescolino. Di età varia compresa fra i trenta e settant’anni – è un’idea che mi faccio dall’aspetto – hanno letto La notte ha la mia voce e non sembrano per nulla intimoriti dall’introduzione articolata che la docente fa come premessa all’incontro. La conoscono, perché viene qui ogni mese con un libro diverso e con gli studenti, a dire il vero con le studentesse universitarie – sono per la maggior parte ragazze – del gruppo di volontariato.

È la stessa docente che fa gli esami a quelli fra di loro che in carcere si mettono a studiare per prendere una laurea, sanno cosa aspettarsi da lei: che sia una professoressa, un’autorità. Da me invece è più difficile capire cosa si aspettino. Hanno letto un mio libro, pensano di conoscere qualcosa di me. Ogni lettore costruisce il suo autore a partire da quello che legge. In questo li riconosco, nella curiosità che vedo nei loro occhi, nella prima imprudente domanda: ma sua figlia come sta? Quanti anni ha adesso? Io invece non so nulla di loro, non sono tenuta a sapere i delitti che li hanno portati qui e non riesco a immaginarli, forse nemmeno voglio. Cerco di rispondere a tono, ma è come se mi sentissi dentro una schermaglia amorosa, come se la posta in gioco non fosse tanto o solo il contenuto del libro che hanno letto, ma la loro esistenza e la mia entrate in collisione. Uno di loro, che poi sarà taciturno per il seguito, mi chiede a bruciapelo: “Era mai stata in un carcere?” Seguo con lo sguardo il gesto della mano con cui indica le tante porte e sbarre attraversate per arrivare fin lì. Loro sono entrati nel mio libro, che parla di un corpo segregato dentro se stesso dalla paraplegia. Io devo entrare dentro le mura carcerarie che segregano i loro corpi dal resto del mondo. Provare a sentire l’aria rarefatta, il cibo insapore – è una cosa di cui si lamentano appena possono – il tempo dilatato e rarefatto anch’esso, perché anche se la maggior parte di loro sanno che ci sarà un poi, intuisco da come mi parlano delle loro giornate che è un orizzonte nebuloso; almeno fino a che non avranno fatto i conti col passato. “Per questo stiamo qui” mi dice uno dei più giovani, poi aggiunge: “Però il tempo è dalla nostra parte, perché prima poi usciamo. Mentre lei…” e indica la mia sedia a rotelle. Lo guardo impassibile. La docente vorrebbe intervenire, ma lui tira fuori un foglio e me lo allunga “Sono mie poesie, vorrei che le leggesse”. L’operatore culturale allunga una mano sul tavolo e sottrae il foglio ricordandogli che non è possibile dare alcun documento agli ospiti in visita se prima non è stato visionato e approvato. “Ma sono le mie poesie, le ho trascritte apposta per lei!” si lamenta, mentre gli altri gli dicono: “Fai così tutte le volte, eppure lo conosci il regolamento”. La mia carriera come delatrice di pizzini va in frantumi, prima ancora di cominciare.

“In fondo noi siamo liberi, a parte il fatto che non possiamo vedere le donne e gli amici” ribadisce e mentre qualcuno corregge il suo discorso – “siamo liberi nella testa, forse” – io penso che la libertà si può dilatare e rimpicciolire quasi all’infinito: quando non ce l’hai te ne fai bastare un pezzettino, quando ce l’hai ne vorresti sempre di più.

Prima di congedarci chiedo come sia cambiato il loro rapporto con la lettura e con la scrittura da quando stanno in carcere. Quasi tutti mi dicono che scrivono molto di più per tenere i contatti con amici e parenti; per alcuni lo scrivere a mano è stata una conquista, non erano quasi più capaci, per colpa di computer e telefonini. Ma è la lettura che li aiuta a mettere in ordine le idee e andare in fondo ai pensieri, su questo concordano. E cosa vi piace leggere? Li incalzo. “Di tutto” mi rispondono. Ho davanti la prova vivente che un’attività solitaria come la lettura è anche quella che può tenerti maggiormente in contatto con il mondo, fartene apprezzare la complessità.

Il più anziano di loro, almeno a giudicare dall’apparenza fisica, l’uomo che all’inizio mi faceva domande su mia figlia, fa per allungarmi un paio di caramelle “Rossana”. Sento attivarsi lo sguardo di divieto dell’operatore culturale e scuoto la testa sorridendogli, come a dire: non posso, ma grazie.

L’incontro è finito, un’ora è passata in fretta, lasciamo la sala della biblioteca e riprendiamo la lunga successione di corridoi e cancelli, per il primo tratto alcuni carcerati ci seguono, poi deviano salutandoci. Non so come, qualcosa è scivolato nella tasca della giacca che ho addosso, frugo e trovo le due caramelle “Rossana” che stringo fra le dita.

L’appuntamento successivo è con la sezione femminile, siamo a fine gennaio, qualche giorno prima è nevicato ma si è sciolta quasi tutta. Le donne in carcere sono in quel momento meno di una sessantina. “In certi periodi – mi dice la guardia che ci introduce all’ultimo varco – arriviamo anche a ottanta o novanta, mentre la sezione maschile ospita in media fra gli ottocento e novecento detenuti”. Mi domando se sia questa sproporzione numerica a far sì che qui non ci sia nemmeno una biblioteca: ci riuniamo in una sala che è quella adibita alle prove di teatro. Appoggio per terra le tre sacche di libri che ho portato da donare, chissà dove andranno a finire, chissà se ci sarà qualcuno che li catalogherà o renderà comunque disponibili alle detenute. La guardia, una donna con una bellissima coda di cavallo bionda, mi ha detto che più tardi vedrà di occuparsene.

Stavolta a coordinare il gruppo di lettura è un docente uomo dell’Università, collabora con il laboratorio teatrale e insieme al regista e al coreografo che è qui con noi. Dopo aver parlato del mio libro, faranno le prove dello spettacolo al quale stanno lavorando già da qualche mese. Si tratta di un riadattamento del Re Lear di Shakespeare da una prospettiva tutta al femminile, cioè dal punto di vista delle tre eredi: Le figlie di re Lear, come mi spiega il coreografo.

Arrivano e sono una ventina, hanno pezze colorate di stoffa in mano che immagino serviranno per le prove e mi sembrano animate da una certa euforia. Il docente stavolta fa solo una breve presentazione e lascia subito a loro la parola. Comincia una signora in tuta da ginnastica nera e dall’aspetto curatissimo – capelli passati alla piega, unghie laccate, trucco in viso – espone un discorso elaborato, ricercato nella scelta delle parole, pare che lo stia recitando. Più tardi, assistendo alle prove, scoprirò che è lei che ha le parti più lunghe e più difficili da memorizzare. Ora parla di libertà, e di responsabilità delle proprie azioni e delle proprie parole. Non so bene come, ma ho l’impressione che anche il suo discorso sia un modo per espiare, forse la ragione per cui si trova in carcere ha a che vedere con l’uso sbagliato delle parole, capisco che adesso le adopera in maniera molto sorvegliata. Le altre rimangono un po’ intimidite dalla sua eloquenza, faticano a prendere la parola. Sorridono però, e sorridendo scoprono bocche con molti denti mancanti, e stavolta non riesco a impedirmi di pensare a come siano finite in carcere e se ci siano finite, com’è probabile che sia, per reati minori – furto, ricettazione, insolvenza, adescamento – e per mancanza di soldi con cui pagarsi una difesa che le scagionasse o abbreviasse la pena, dal momento che non hanno nemmeno il denaro per ripararsi i denti, e molte di loro sembrano mie coetanee.

Una signora con un forte accento campano si mette a canticchiare, capisco che lo fa per attirare l’attenzione ed è il suo modo per rompere il ghiaccio: “Io nella sua condizione, mi sarei chiusa in casa” dice d’un fiato. “E quindi le volevo dire che è coraggiosa assai”. “Anche io la trovo coraggiosa, perché se fossi in carcere non credo avrei voglia di cantare”, le rispondo. Poco dopo scoprirò che cantare le libera, nello spettacolo Le figlie di re Lear sfoderano voci da leonesse e tenori, che mai avrei immaginato prima, quando erano sedute e composte intorno al tavolo, e ora invece in certi momenti sembra quasi di stare dentro un musical.

Una signora con pronuncia straniera, lituana mi dice di essere, chiede che le firmi un fazzoletto di carta, le copie dei libri che hanno ricevuto da leggere rimangono al carcere e quindi non possono farsele autografare, le chiedo per chi vuole quella firma: per mia figlia che ha quindici anni, mi risponde.

Il sole, remoto perché è gennaio e perché anche qui le finestre sono sempre in alto e strette, si allontana, si accendono i primi neon, e loro eseguono le prove, eccitate per il fatto di avere qualche spettatore in più del solito, me e le studentesse universitarie. Ci lasciamo con la promessa che andrò ad assistere al loro debutto nel teatro del carcere a giugno. Ci tengono moltissimo.

Nel frattempo arriva la pandemia da Covid19, l’11 marzo viene deciso il lockdown di tutto il paese e qualche settimana dopo cominciano rivolte e gravi incidenti con morti e feriti in diverse carceri, fra cui la Dozza di Bologna.

Il gruppo di lettura interrompe gli appuntamenti mensili. Lo spettacolo teatrale di giugno salta. Scrivo lettere alle quali non riceverò mai una risposta. Non importa. Chissà se qualcuno le ha lette ai detenuti e alle detenute che ho conosciuto.

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