Sono quarantanove i saggi che compongono l’ultimo libro di Marco Belpoliti, L’età dell’estremismo (Guanda, 2014) con una introduzione dell’autore e una ricca nota bibliografica finale a corredo di ciascun saggio. Il nucleo di partenza, costituito dai saggi presenti in Crolli (Einaudi, 2005) si è ampliato seguendo plurime direttrici, in uno sforzo notevolissimo di abbracciare fenomeni molto distanti tra loro, ma legati dal fatto di avere una portata globale e di tendere, in potenza o in atto, verso un esito estremo, spesso catastrofico. I due poli dell’estremismo di cui parla Belpoliti sono infatti quelli tracciati da Susan Sontag, una cinquantina d’anni fa: la banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile, di cui sono matrice la seconda guerra mondiale e la società dei consumi, ma che l’autore declina alla luce degli accadimenti degli ultimi anni.
E due sembrano essere i vettori intorno cui Belpoliti ha organizzato i propri oggetti di studio: l’atto del vedere, sempre più mediato da protesi e filtri – macchina fotografica, telecamera, televisione, computer, drone – e l’atto dell’occupare lo spazio, costruendo, abbattendo, risignificando luoghi, o al contrario sottraendo ai luoghi e ai corpi la loro propria materialità. Vedere e manipolare lo spazio sono, peraltro, gesti fortemente politici, in quanto conferiscono potere e sono forieri di conseguenze, L’età dell’estremismo è dunque, a suo modo, un libro politico.
Viviamo in un orizzonte d’attesa catastrofico, ma la catastrofe è anche ciò su cui camminiamo, ogni giorno. L’eredità del Novecento è costituita infatti da una mole intollerabile di macerie – di città bombardate, di muri abbattuti, quello di Berlino nell’euforia del 1989, ma anche quelli delle case palestinesi trapassati dai soldati israeliani alla fine del primo decennio del ventunesimo secolo. La presenza delle macerie, indagata da tanti artisti e scrittori di cui Belpoliti intreccia la diversa testimonianza e interpretazione, da Sebald che ne lamenta la rimozione a Haacke che, nel padiglione della Biennale del 1993, ne crea di nuove, sventrando il pavimento costruito sotto il nazismo, subisce una mutazione in un momento preciso, si trasforma da subito nel suo elemento più sottile, la polvere, con il crollo delle Twin Towers a seguito dell’attacco islamico rivendicato dai terroristi di Al Qaeda l’11 settembre 2001. Questo disastro, per la maniera in cui è stato raccontato e ripreso, in diretta e in tempo reale, è emblematico di un modo nuovo di trattare la realtà: il fatto che milioni di persone potessero assistere all’evento dietro uno schermo lo ha reso irreale o surreale. Alcuni artisti, fra questi Damien Hirst e Karlheinz Stockhausen, lo hanno in seguito commentato come se fosse un’opera d’arte, una straordinaria opera d’arte, suscitando il biasimo giustificato di vittime e comunità civile, e rivelando al contempo come l’evento rientrasse in quella spettacolarizzazione del reale che invade il nostro tempo nella sua indistinzione etica. Proprio su tale indistinzione si basa il kitsch, sentimentalismo del gusto, estetizzazione della realtà, dittatura del cuore (Kundera) e della lacrima televisiva, che evacua e non rielabora, che rivela mancanza di giudizio morale e collega con un filo rosso il dubbio commento di Hirst alla sospensione di responsabilità di Albert Speer, architetto di Hitler. Si domanda a ragione Belpoliti: “Non sarà questa doppia sospensione della morale, insieme ai rimossi monoliti di cemento, la vera eredità che la guerra mondiale ha consegnato all’età contemporanea?” Ed è con questa domanda in sordina che l’autore si affaccia a comprendere lo sviluppo di una città come Astana, capitale del Kazakistan, una psicometropoli dove la simbologia architettonica prevale sulla funzione ed esprime un’idea autocratica, distopica e regressiva verso forme storiche di secoli precedenti svuotate, però, di senso, o Pyongyang capitale della Corea del Nord, paese dominato da una dittatura che ha resecato i rapporti con il resto del mondo ed eretto un’utopia architettonica modernista che ripropone, in una scacchiera disciplinata e coercitiva, gli esempi monumentali europei e americani del ventesimo secolo. Ma è nell’analisi della cattura e uccisione di Osama Bin Laden, nella sua rappresentazione mediatica, che l’autore fonde i vettori della sua ricerca: il capo del terrorismo islamico internazionale, che aveva rivendicato l’attentato alle Torri gemelle, fu scovato in un compound pakistano dai droni tra la fine di aprile e l’inizio di maggio del 2011. Lui che si era negato nella propria fisicità, apparendo solo in video che ne ritraevano perlopiù il volto, viene sconfitto dagli Americani proprio grazie alla superiorità dei loro mezzi di avvistamento a distanza, e in assenza fisica dell’esecutore dell’eventuale lancio di arma da fuoco. Il presidente Barack Obama, insieme ai suoi collaboratori, dalla Situation Room della Casa Bianca seguì tramite video le operazioni, mentre nella saletta attigua il generale dell’aeronautica Marshall Webb coordinava dal suo pc, e tramite le immagini inviate dal piccolissimo drone, il raid dei soldati al fortino di Bin Laden. È il trionfo della visione senza sguardo, preconizzata dal filosofo Paul Virilio in un saggio del 1984. Una visione che fa prevalere la precisione del colpo d’occhio senza coscienza su quello dell’arma da fuoco.
Di questo mondo in cui vedere e sapere sono di nuovo sinonimo di potere, senza più una chiara guida morale, Belpoliti ha tracciato l’inquietante mappa, in cui se è vero che metropoli e disastro sono un binomio certo, è altrettanto vero che anche fuori dalle metropoli in ogni luogo del pianeta, in ogni istante, si consuma nel rumore bianco che ci avvolge, fatto di accelerazione tecnologica, di consumo nevrotico di merci e risorse, di moltiplicazione di illusioni di realtà, una incontrollata fuoriuscita dell’uomo da se stesso, o meglio, da tutto quello che finora si è definito umano.
(Articolo apparso su Alias domenica 20 aprile 2014)