Recensione al libro: Hans Belting, I canoni dello sguardo. Storia della cultura visiva tra Oriente e Occidente, Bollati Boringhieri, 2010
Esiste una specificità dello sguardo occidentale rispetto a quello orientale e, se sì, in quale momento della storia che a lungo ha saldato Mediterraneo e Medio Oriente si è determinata tale differenza e su quali premesse filosofiche ha potuto approfondirsi?
A partire da domande largamente culturali, e non certo circoscrivibili all’ambito della storia dell’arte tout court, lo storico tedesco Hans Belting ha costruito un ampio affresco sul rapporto con la rappresentazione figurata intrattenuto dalle due civiltà, che sono in prima istanza, come recita il titolo originale del libro − Florenz und Bagdad. Eine westöstliche Geschichte des Blicks (trad. it. M. Gregorio, Bollati Boringhieri 2010) − due luoghi geografici. Firenze alla fine del Quattrocento dove Brunelleschi e Leon Battista Alberti dimostrano e teorizzano le regole della prospettiva lineare, Bagdad centro per cinque secoli (dall’VIII secolo al 1250 ca.) del califfato abbaside e del mondo arabo nel momento del suo massimo sviluppo scientifico-culturale.
Non una storia sincronizzata né, in verità, limitata a queste due città paradigmatiche. Piuttosto una storia che si prefigge di attraversare il ‘tempo lungo’ in cui i movimenti profondi del pensiero hanno modo di rivelare le loro conseguenze e i loro intrecci appieno, e una storia che sceglie luoghi simbolici per mettersi a confronto e dunque ripensarsi in maniera più critica. La prospettiva, ovvero la rappresentazione sul piano dello spazio secondo regole matematiche, viene individuata da Belting come luogo simbolico della cultura occidentale per eccellenza, anzi, per usare l’espressione originariamente coniata da Ernst Cassirer, e poi ripresa da Erwin Panofsky nel celeberrimo saggio del 1927, la prospettiva è una forma simbolica, in cui il soggetto si appropria della realtà tramite una visione guidata da regole, mimetica del reale e fortemente incentrata sull’occhio dell’osservatore. Belting espande il significato di questa nozione, oltre il momento stilistico, a una parabola di lunghissima durata della cultura occidentale, caratterizzata dalla tensione costante a far coincidere sguardo e rappresentazione, visione e conoscenza, percezione ottica e controllo del mondo e, in ultima istanza, immagini e realtà in uno sforzo mimetico che si autocelebra e s’impone anche oggi nella fotografia e nelle realizzazioni in 3D.
Tanta centralità corporea dell’osservatore è largamente, se non del tutto, assente dalla cultura visiva araba, che dalla stesura del testo della Tradizione in poi, avvenuta poco dopo la morte di Maometto, ha sempre nutrito enormi sospetti nei confronti della possibilità di raffigurare per immagini tutto ciò che è dotato di soffio vitale, gli esseri viventi che ridotti a disegno sono mero plagio, inganno sensoriale, insulto alla creazione. Di qui l’anatema verso la figura umana o la visione prospettica che, come racconta Orhan Pamuk ne Il mio nome è rosso, degrada lo sguardo “dall’alto da cui lo vede Allah a livello di un lurido cane di strada”. Antropocentrismo occidentale versus teocentrismo orientale. Fin qui − si direbbe − cose note. Meno noto è il contributo fondamentale che la cultura araba e in particolare il matematico, nato a Bassora e morto al Cairo, Alhazen, autore di un trattato scritto intorno al 1028 e tradotto in Spagna nel 1200 con il titolo Perspectiva, ha dato alla teoria della visione, e su questo paradosso Belting giustamente insiste. Alhazen si è emancipato dalle idee dell’antichità greco-romana, ancora incerte riguardo al meccanismo e alla provenienza dei raggi visivi, che Euclide riteneva fossero promanati dagli occhi stessi e non rifratti, per concentrarsi sul motore della visione: la luce e gli innumerevoli fenomeni di rifrazione. Per Alhazen, inventore della prima camera oscura, la luce è misurabile, come sono calcolabili le distanze che essa percorre tra i corpi che colpisce e da cui si rifrange. Questa assunzione si rivelerà fondamentale per gli studi sulla prospettiva degli artisti e matematici italiani nel Quattrocento che leggeranno Alhazen in traduzione latina o che ne assorbiranno le teorie assimilandole erroneamente a quelle dell’antichità. Tuttavia le ricadute nelle due culture visive non potrebbero essere più divergenti. Per Alhazen il reale non si dà per immagini, che l’occhio umano ordina, bensì è costituito da un’infinità di punti radianti che portano agli occhi le species, le qualità dei corpi, attraverso geometrie di luce, racchiuse in formule matematiche, le stesse che scompongono in prismi le cupole islamiche, i muqarnas che Belting con affascinante parallelismo individua come corrispettivo della forma simbolica assunta dalla prospettiva nell’arte occidentale. La geometria, e in particolare la geometria della luce, è la forma simbolica che nel mondo arabo ha occupato il ruolo ideologico e storico di principale tecnica culturale. Il confronto tra prospettiva lineare e geometria della luce, applicato a concreti manufatti d’arte, si rivela esemplare. La cupola prospettica della cappella della Sagrestia Vecchia in San Lorenzo reca un firmamento stellato che è frutto dell’osservazione precisa e locale: è il cielo visto il 4 luglio del 1442 a Firenze. La cupola dell’Alhambra nella Sala delle Due Sorelle a Granada (1230 ca.) è viceversa concepita come uno stupefacente reticolo di prismi, trigoni esagoni e dodecagoni, atto a raccogliere il movimento costante e mai riconducibile a un unico punto di vista della luce nel cosmo nel suo variare giornaliero e stagionale. E ancora, la finestra emblema dell’immagine preordinata prospetticamente nella cultura occidentale occupa un ruolo opposto rispetto a quella araba: nella prima ci si affaccia sul mondo per catturarne immagini, lo si domina, se ne stabilisce la distanza; nella seconda si lascia filtrare la luce attraverso intarsi e giochi geometrici, le masrbiyya costituite da una grata di legno intrecciato, che riflettono nell’interno il fluttuare dell’esterno.
In uno studio così improntato a un intelligente confronto tra esiti di culture diverse − oltre il politically correct in quanto il confronto vorrebbe mettere in luce reciproche debolezze e punti di forza − dispiace che l’autore ignori come alcuni passaggi tra una cultura e l’altra e alcune figure nella trasmissione delle conoscenze e teorie sulla visione siano un po’ meno ignote di quanto la tesi del suo libro vorrebbe far credere. Il riferimento va in particolare allo studio di Massimo Scolari, Il disegno obliquo. Una storia dell’antiprospettiva (Marsilio 2005), dove sono ampiamente riconosciuti e indagati il ruolo di Alhazen e del matematico italiano Biagio Pelacani (†1416), acclamato dagli intellettuali fiorentini riuniti intorno ad Alberti per i suoi studi sull’estensione dei corpi nello spazio e la loro riproducibilità in termini visivi. Non solo: Scolari ha il merito di problematizzare il concetto di prospettiva come forma simbolica, dimostrando che la prospettiva lineare o centrale, tanto teorizzata, sia nella pratica artistica diffusamente disattesa, anche nel Rinascimento, a vantaggio della proiezione parallela.
Le forme simboliche, nell’una e nell’altra cultura, sono tecniche culturali che rispondono a complessi bisogni psicologici collettivi e individuali; il pregio del panorama offerto da Belting consiste, in ultima analisi, nel suggerire che prenderne consapevolezza equivalga a coglierne la portata relativa, come di ogni altro gesto umano, sempre frutto di un bisogno che trova espressione, funzionale e simbolica, o di una paura che viene esorcizzata o rimossa.
(Alias, marzo 2011)