Recensione al libro: Miguel Abensour, Della compattezza. Architetture e totalitarismi, traduzione italiana di Giacomo Raccis, Jaca Book, 2012
Quale può essere il senso di tradurre e pubblicare in Italia oggi il saggio che il filosofo Miguel Abensour licenziò in Francia nel 1997 in aperta polemica con la riabilitazione in chiave culturale di Albert Speer, operata dal belga Léon Krier autore di una monografia sull’architetto del Führer?
La ragione principale potrebbe essere nel fatto che Della compattezza, delineando lo statuto tutt’altro che neutro dell’architettura all’interno di quella forma inedita di governo che fu il totalitarismo nazista, invita a riflettere sui meccanismi del consenso e su quelli della cancellazione di spirito critico non solo nel singolo bensì nelle masse. Un fenomeno che a ben pensarci ci tocca da vicino, anche se con altri mezzi. Siamo più di sette miliardi sul pianeta connessi da reti di scambio e di comunicazione, da interessi che scavalcano di molto i confini nazionali e i popoli, di fatto siamo oggi più che mai massa nell’accezione che Elias Canetti ha dato al termine nel saggio Masse und Macht (1960).
Come si domina dunque una massa? Innanzitutto creandola, facendola slittare dall’essere popolo con istanze divergenti e conflittuali come è normale che sia per gli esseri umani, a un insieme unico, indistinto, un corpo fusionale che abolisce in maniera fittizia le differenze. Per creare questa massa Adolf Hitler, e con lui e per lui, Albert Speer si servirono principalmente dello spazio e dell’architettura. Ma non è stigmatizzando lo stile ‘neoclassico’ adottato da Speer che andremo al cuore del problema o capiremo meglio come l’architettura sia stata mezzo essenziale del potere, Abensour è infatti attento a non cadere nel tranello dell’identificazione fra totalitarismo e stile architettonico, piuttosto s’interroga sulla “qualità dell’esperienza fondamentale di comunità umana” che tali architetture imponevano, per usare le parole di Hannah Arendt tratte da Vita Activa.
Tale esperienza era improntata allo spossessamento di sé, alla soggezione verso un assoluto fuori dalla storia, connotato da forme ciclopiche e respingenti. Pensiamo all’effetto annichilente della Grosse Platz di Berlino (1937-1940), dove il singolo si perde e non può che invocare la presenza di migliaia e migliaia di altri esseri a colmare un vuoto concepito per contenere un milione di persone, oppure alla trance ipnotica realizzata a Lichtdom, la cattedrale di luce, scenografia effimera innalzata a Norimberga l’11 settembre 1937, alle ore 20, quando il sole tramontando avrebbe concesso di illuminare un solo punto, il corpo della coesione: il Führer.
Ma non erano solo le piazze gli stadi e le stazioni, luoghi per definizione deputati alla moltitudine, a venire investiti da una megalomania architettonica con forti proiezioni personali (Hitler si considerava e autorappresentava principalmente come un artista, un architetto in particolare). Abensour per descrivere lo stravolgimento degli spazi, e quindi delle dinamiche sociali, ci lascia alle parole di Speer che nelle sue Memorie del Terzo Reich diventa sincero e credibile proprio quando racconta il confronto con il Führer sui progetti, confronto che deve essergli costato parecchio in termini di orgoglio professionale: “Noi progettavamo e costruivamo senza usare un metro reale. (…) Vedendo le fotografie di quegli edifici privati e di quei negozi sono preso ogni volta da un senso quasi di paura, comprendendo che la rigida monumentalità della Strada avrebbe reso vani tutti i nostri sforzi di portarvi la vita della città”.
E ancora: “Ma tutte queste cose io le vedevo nel quadro generale, Hitler no. La sua passione per gli edifici destinati all’eternità lo rendeva cieco alle soluzioni del problema del traffico, ai quartieri residenziali, alle zone verdi: la dimensione sociale non suscitava il suo interesse”.
Se l’identificazione di uno stile con il regime appare a ragione illegittima, − e a riprova si potrebbe fare il confronto con il fascismo italiano che al neoclassico unì anche istanze del tutto moderniste − in cosa consiste dunque il quid nominabile dell’architettura del Terzo Reich? Abensour lo individua nella nozione di compattezza, entro la quale raccoglie l’aspirazione all’eternità ottenuta attraverso l’uso di mura e strutture massicce fatte per sfidare i millenni, la scala monumentale e schiacciante, l’abolizione degli spazi di frizione e confronto, la manipolazione delle percezioni che da individuali devono essere immorsate verso un collettivo indifferenziato e sazio, verso quel farsi massa che rassicura e ottunde perché non lascia intravedere nessun’altra possibilità.
Ma la definizione migliore della compattezza, per contrasto, Abensour la formula ricorrendo alle impressioni ricavate dal viaggio a Napoli, nel 1928, di Walter Benjamin: “Porosa come questa pietra è l’architettura. Struttura e vita interferiscono continuamente in cortili, arcate e scale. Dappertutto si conserva lo spazio vitale capace di ospitare nuove, impreviste costellazioni. Il definitivo, il caratterizzato vengono rifiutati. Non c’è alcuna situazione che appaia concepita per rimanere uguale per sempre − nessuna forma afferma di essere così e non altrimenti.”
Se le forme del paesaggio urbano di Napoli appaiono a Benjamin porose e accoglienti, pur nel loro disordine, per converso l’ossessione di rigore e monumentalità che struttura le città tedesche non è qualcosa di dissociabile dal regime nazista e dalla sua volontà di dominio. E che i crimini barbarici di tale regime si siano compiuti non fra mura monumentali ma in sordide baracche (per citare Krier), lungi dallo scagionare l’architettura civile ne fa l’evidente alveo di una psicosi collettiva.
È possibile che la compattezza non si manifesti oggi attraverso l’architettura, o meglio che quello non sia il suo ambito prevalente, visto che molti altri ne ha a disposizione per creare consenso acritico e corpi mistici al servizio di un solo credo e di un solo potere. Di certo rammentarne la nozione giova per tenersi allenati a distinguere ciò che può essere bene comune, esteso al numero più largo possibile di persone, da ciò che è l’imposizione di una strada a senso unico per tutti.
(Alias, 3 gennaio 2013)