Letto in pochissimo tempo, e con la voracità delle letture che non si riescono ad abbandonare, una volta chiuso e appoggiato al tavolo, Stoner (Fazi 2012) ha cominciato a pormi una serie di interrogativi ai quali lo svolgersi lineare della trama e l’intima coerenza tematica del libro non davano risposta. C’erano parecchie cose che non tornavano e il loro non tornare mi sembrava parte della forza di questo romanzo.
Ho cercato di prenderne le distanze, osservandolo: il libro che il professore di scrittura creativa dell’Università di Denver in Colorado, John Williams, pubblicò nel 1965 a distanza di diciassette anni dal primo, Nothing but the Night (1948), e dopo alcune raccolte poetiche, assomiglia nel titolo a un lemma da enciclopedia: Stoner.
Ma chi è Stoner per meritarsi una biografia, un romanzo tutto per sé? Proprio nello stesso anno in cui in America usciva In cold blood di Truman Capote, dove protagonisti erano altri comuni sconosciuti, ma vittime e colpevoli di un agghiacciante fatto di cronaca che aveva sconvolto e catturato l’attenzione dell’intero paese.
A giudicare dalla prima pagina del libro era un signor nessuno, come tanti, come tutti: “I colleghi di Stoner, che da vivo non l’avevano mai stimato un gran che, oggi ne parlavano raramente; per i più vecchi il suo nome è il monito della fine che li attende tutti, per i più giovani è soltanto un suono, che non evoca alcun passato o identità particolare cui associare loro stessi o le loro carriere”.
Questo inizio così sommesso, così poco avvincente, scommette tutto sull’empatia del lettore, infatti Stoner è un libro interamente giocato sull’empatia dello scrittore per il proprio personaggio e su quella del lettore nei confronti di entrambi. Se per i vecchi colleghi Stoner è un monito di ciò che li attende, e dunque una figura a loro molto prossima – la vita di tutti noi può essere trascurabile e fallimentare sotto un certo punto di vista – per i giovani è lo spazio bianco del possibile, di quello che li attende e in cui ancora, come tutti i giovani, hanno fiducia.
In poche righe Williams abbraccia l’oscillazione estrema dell’esistenza di ciascuno di noi: l’immenso potenziale della giovinezza, l’inevitabile bilancio della senilità. Uno spazio molto accogliente per il lettore, anche se annunciato in modo piano, quasi ovvio.
La vita di Stoner tiene fede alla prima pagina, non è per nulla eccezionale anzi costellata da fallimenti privati e professionali. Quella di William Stoner è una biografia segnata da poche svolte: l’opportunità di frequentare l’università e affrancarsi da un destino di agricoltore nell’oscura fattoria del Missouri in cui era cresciuto, la concomitante scoperta del fascino della letteratura e degli universi che essa dischiude, la scelta di non arruolarsi in guerra, il matrimonio con una donna frigida e di una classe sociale a lui superiore, le meschinerie tipiche della vita universitaria, un avversario professionale che gliela giura, una figlia adorata ma oggetto di ulteriore conflitto con la moglie, un amore vero e tardivo con una giovane ricercatrice costretta poi a lasciare l’università, il deragliare della vita della figlia rimasta incinta per caso e presto vedova, infine la malattia e la morte.
Si potrebbe dire che tutto ciò è raccontato molto bene, con un rispetto dei tempi biografici in accordo con i tempi della storia – segnatamente le due grandi guerre mondiali – che ha lo stile di un naturalismo disinvolto e senza impennate. Ma con ciò non si spiegherebbe la forza di aderenza che il libro esercita. Anche l’introspezione è trattenuta: non sapremo mai perché Edith, la moglie di Stoner, sia così incapace di amare, così nevrotica e lui così vinto e rassegnato davanti al fallimento del loro matrimonio, né perché il capo del dipartimento di letteratura inglese Lomax, colpito da una malformazione agli arti ma dal viso di bellezza hollywoodiana, si prenda tanto a cuore le sorti di uno studente pure affetto da menomazioni fisiche che raggira Stoner con la sua insolenza e fannullaggine, divenendo fra i due il casus belli di una discordia destinata a durare per vent’anni. Né perché sul finale Lomax ci tenga tanto a conferire il titolo di professore emerito a Stoner, dopo averlo cordialmente odiato e osteggiato per gran parte della sua carriera. Così come ci rimane oscura la psiche o la volontà di Grace, la figlia, che pur di sopravvivere al dissidio continuo tra i genitori ha imparato a rispondere a qualsiasi domanda, e a se stessa, “non importa”.
Questi sono fatti della vita, e sono mistero, sembra dire Williams con una scrittura che solo in apparenza segue il filo degli eventi, accumulando in realtà un sottostrato simbolico che va dal dialogo che Stoner ha con i due compagni di studi, dove ci si domanda quale senso abbia lo studio accademico e quale posto occupino gli intellettuali nella società, sino all’atto finale della morte solitaria, con il proprio libro aperto e divenuto ormai illeggibile per l’occhio e la mano del morente dal quale scivola a terra, nel silenzio.
Qual è il tormento mai detto di Stoner? Il filo che continua a non tornare se si segue solo la linearità della narrazione?
Una delle possibili chiavi di lettura mi sembra che sia quella rappresentata dal dilemma, di lunghissimo corso, fra vita attiva e vita contemplativa. Stoner sceglie la seconda, vi si trova a proprio agio, come fra l’odore dei libri nella biblioteca del campus in cui passa la maggior parte del proprio tempo, ma anche se il quesito non giunge mai a consapevolezza enunciata, la sua vita sembra ribadire ad ogni significativo appuntamento che in una qualche misura Stoner ha abdicato a vivere, ha siglato la propria inettitudine ad agire.
L’università è il microcosmo in cui può far valere la sua condotta adamantina, i principi inviolabili, la difesa della qualità. Ma nella vita privata non riesce a parlare con la moglie, non riesce a impedirle di umiliarlo, né a far sì che Grace, la figlia, non subisca le conseguenze del loro matrimonio privo di affetto. Quando finalmente l’amore arriva, non è lui a compiere la prima mossa, né l’ultima. L’intraprendente e brillante Katherine coglie con ben altra lucidità e tempismo la possibilità di amarsi e la necessità di lasciarsi. La scelta di Stoner è in profondità conflittuale: Lomax, il suo superiore bellissimo e storpio, così come quello strano doppio ulteriormente deforme che è lo studente da lui protetto, Walker, sono da leggere come proiezioni dello stesso Stoner, sono degli Stoner rovesciati, ma parti dello stesso mondo. Ci sono almeno due episodi che possono orientare la lettura in tal senso: nell’unica occasione in cui Lomax va a una cena a casa di Stoner, al momento del commiato bacia sulle labbra Edith, un bacio castissimo, lo definisce Stoner, eppure uno scambio molto intimo. Lomax ha dunque un accesso impensato alla parte oscura della vita sentimentale di Stoner. Poi è sempre Lomax a far sì che Katherine se ne vada e interrompa per sempre la storia di amore con Stoner. Una storia che era stata la svolta essenziale nel suo cuore così offuscato: “A quarantatré anni compiuti, William Stoner apprese ciò che altri, ben più giovani di lui, avevano imparato prima: che la persona che amiamo da subito non è quella che amiamo per davvero e che l’amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un’altra.”
Quello che abbiamo davanti non è dunque, o non solo, il racconto dei fatti di una vita, ma il nebbioso, alternante e mutevole prenderne coscienza da parte di chi la vive. Ed è a questa coscienza che aderiamo, non tanto ai fatti di per sé deludenti. Perché se Stoner è stretto nel dilemma fra contemplare e agire, sapere dire la vita a parole e attraverso libri o saperla vivere, la coscienza arriva sempre dopo, è sempre un fatto di contemplazione della vita. E nel momento della morte, dal punto di vista narrativo uno dei momenti più alti del libro, questa distanza emerge con chiarezza: “Udì il suono distante di una risata e voltò la testa in quella direzione. Un gruppo di studenti stava attraversando il suo cortile sul retro per tagliare la strada; correvano chissà dove. Li vide distintamente, erano tre coppie… Camminavano leggeri sull’erba, quasi senza toccarla, senza lasciare tracce del loro passaggio. Stoner li guardò mentre sparivano dalla sua vista, fin quando non poté più scorgerli. E per un lungo istante, dopo che furono svaniti, il suono delle loro risate continuò ad arrivare fino a lui, lontano e inconsapevole, nella quiete di quel pomeriggio d’estate.”
Qui si condensa lo struggimento verso ciò che avrebbe potuto essere la vita, e non è stata. Il cammino che non lascia traccia non è una metafora della mancanza di peso di qualsiasi esistenza, al netto di tutti i bilanci? Una mancanza di peso che però è grazia, e alleggerimento, come il libro divenuto illeggibile perfino al suo autore che cade nel silenzio. Stoner ha accettato la propria vita, con tutte le sue manchevolezze; nel farlo, è come se l’avesse redenta.