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L’intreccio e il tema. Qualche riflessione su “Tale of Tales” di Matteo Garrone

10 Giugno 2015
Eve, Autun, cattedrale di Saint Lazare, Francia
Eve, Autun, cattedrale di Saint Lazare, Francia

Ispirato ai tre racconti, La cerva fatata, La vecchia scorticata e La pulce, racchiusi nella prima giornata del pentamerone di Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti, pubblicato postumo tra il 1632 e il 1634, il film di Matteo Garrone ha operato una scelta, fra le tante possibili, che risulta coerente nella forma narrativa e per la compattezza tematica.

I tre racconti prescelti da Garrone, che ha scritto la sceneggiatura insieme a Edoardo Albinati, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, non presentano nessun legame apparente, non più di quanto vi siano legami e ricorrenze in ciascuno dei racconti che compongono l’intero pentamerone, e come ha evidenziato Daniela Brogi (Il castello delle illusioni incrociate. Il racconto dei racconti – Tale of Tales, Matteo Garrone, 2015) la capacità di resa del fiabesco da parte del regista si basa anche sulla maniera in cui ha deviato dai tre racconti, in parte modificandoli, in parte attingendo al senso generale de Lo cunto de li cunti, con un’interpretazione originale: tutto ciò che nasce a nuova vita richiede una perdita, perché “l’equilibrio del mondo deve essere mantenuto” come recita il mago in una delle scene iniziali.

Molti critici hanno sottolineato come a legare la narrazione sarebbero le continue metamorfosi in atto, il trasformarsi di una cosa in un’altra che lascia intravedere una concezione del mondo, lucreziana poi ripresa nel Rinascimento, come materia e spirito in continua trasformazione per movimento atomico. Morte e vita sono dunque punti di un cerchio in perenne movimento. D’altronde, l’episodio iniziale dell’uccisione del dragone da parte del re per asportargli il cuore, che una volta cotto dalle mani di una vergine farà rimanere incinta la regina all’istante di un feto già maturo e pronto per essere partorito, è la prima di numerose trasformazioni che avvengono per ‘fatagione’ o per magico legame con gli elementi, come la mutazione di una radice d’albero in sorgente che terrà legati i destini di Elias, figlio della regina e Jonah figlio della serva che ha cotto il cuore, uniti dall’aspetto che li rende somiglianti come gemelli e da un’amicizia che travalica le differenze sociali.

Il cambiamento è senz’altro il dispositivo che consente di rendere continua la materia visiva, sontuosa e sorprendente nelle sue possibilità metamorfiche, duttile a oscillazioni notevoli fra un registro epico e lirico e uno comico, costeggiando comunque sempre la parodia, si pensi ad esempio all’episodio del concerto che Viola esegue per il padre distratto, e incurante dell’affetto della figlia, occupato com’è a gingillarsi con la pulce che poi nutrirà del proprio sangue e terrà nella propria stanza, insolito animale domestico vezzeggiatissimo e segreto, cui farà raggiungere dimensioni spropositate e che finirà per stramazzare a causa di una crisi respiratoria. La morte della pulce, tenuta in gran riservatezza dal re, è uno dei momenti più divertenti del film ma è anche il preludio alla tragedia di Viola. Il padre decide infatti di darla in sposa a chi indovini a quale animale appartiene la pelle scuoiata della pulce. Ad aggiudicarsi questa singolare tenzone sarà un orribile orco, cui il re, cuore di pietra, consegnerà l’inerme e atterrita figlia Viola.

Tuttavia se fossero solo questi pur notevoli intrecci materici e sensoriali – scuoiamenti, cuori di pietra e cuori che magicamente danno la vita, acque fatate e boschi incantati – ci troveremmo di fronte a un mero repertorio di tòpoi fiabeschi allestiti con grande scaltrezza visiva e con sapienza debitrice a una solida cultura pittorica; un esempio: l’inquadratura che riprende il re morto dopo avere affrontato e ucciso il dragone ricorda in maniera inequivocabile il taglio del Cristo morto di Mantegna (Milano, Pinacoteca di Brera) e con questo illustre precedente gareggia in pathos.

Viceversa è rintracciabile un’unità tematica più profonda nel film di Garrone, poiché i cambiamenti non avvengono senza una logica e questa è: la crescita, in particolare l’attraversamento pauroso dell’adolescenza che, secondo gli studiosi dell’età evolutiva, coincide con l’uccisione (simbolica) dei propri genitori.

Ciò avviene in tutti e tre i racconti: Elias uccide la propria possessiva madre-regina, trasformata in uno spaventoso ragno che insidia la vita di Jonah, Viola ammazza l’orco, e con lui simbolicamente il padre di cui ottiene il regno, Dora e Imma, le due vecchiette vergini, le donne mai cresciute, uccidono in maniera diversa se stesse per arrivare all’età adulta. Il fatto che ci siano nel film due coppie di fratelli-sorelle è un’ulteriore conferma di questo tipo di lettura: la figura del doppio rientra a pieno titolo nella costellazione dell’adolescenza.

Da questa prospettiva la scena in cui Viola attraversa il burrone sulle braccia di un ardimentoso giovane che cammina su una corda tesa, è la metafora visivamente più forte: solo guardando in faccia i propri desideri e le proprie paure si può crescere, la realtà va attraversata con lo slancio e la fiducia di chi cerca in sé l’equilibrio anche se intorno è il vuoto, e alle spalle c’è un orco. Ritroviamo questo traghettatore dal cuore puro, che l’orco ucciderà brutalmente, nella scena finale: dall’ottagono che incornicia il cielo a Castel del Monte, risorge e torna a camminare su una corda tesa, sulla testa di Viola, ormai donna e regina in grado, ora, di scegliere per sé.

Non tutti e tre gli episodi sono ugualmente conclusi e risolti come quello di Viola; la vicenda di Elias e Jonah è costellata di scene dai molteplici risvolti semantici. Dal bagno che i due giovani fanno nelle acque in cui è stato ucciso il dragone, dal cui cuore entrambi sono stati concepiti, un vero e proprio ritorno al comune liquido amniotico che li ha generati, all’inseguimento nel labirinto che rappresenta la prigione dell’amore geloso della madre regina, ma anche l’intrico in cui le sorti possono essere rimescolate. Eppure è come se rimanesse sospesa la fine dell’amicizia tra Elias e Jonah, così come rimane sospesa la sorte di Dora che da brutta e vecchissima è tornata giovane e bellissima, sposando il re che l’aveva illusa e buttata giù dalla finestra, ma proprio alla cerimonia d’incoronazione di Viola, con cui si conclude il film, Dora vede il proprio braccio ridiventare rugoso e presto anche il proprio volto, tanto che fugge via, non sapremo mai dove. Ultima figura di una trasformazione che non cessa mai di accadere e che è metafora del tempo stesso che tutti insegue e lavora, infaticabile scultore.

Nell’arte romanica e gotica, in particolare nelle sculture dei capitelli delle chiese, domina il motivo dell’entrelac, letteralmente l’intreccio che tiene insieme i vari elementi e può essere di volta in volta un tralcio di vite, la coda di un pesce che si tramuta nei baffi di una creatura terrestre, l’ondeggiare dell’acqua che diventa il sovrapporsi delle loriche sull’armatura di un soldato, i capelli di una sirena che diventano le fronde di un albero della vita. Ma l’entrelac è solo il filo formale che unisce e stupisce di meraviglia coi propri accostamenti inauditi gli occhi dello spettatore, il mondo dispiegato nei capitelli scolpiti è infatti sempre pieno di simboli, di insegnamenti morali, di personaggi che sono figure di altri, esiste dunque un tema che si dispiega in una narrazione, proprio come nel film di Matteo Garrone, che è ben lontano dal mero catalogo di effetti speciali e di immagini orride e bellissime.

(L’articolo è uscito su Cattedrale.eu.)

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