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Prove di trasmissione della memoria

In qualche modo è sempre il 2 agosto 1980, ogni estate, quando un cerchio di calore filtra dalle persiane accostate e s’imprime sulla mia schiena china sul tavolo.
Tema: “Descrivi un fatto di cronaca che ti ha colpito e cerca di spiegare perché”.
Sta scritto sulle righe larghe – una conquista ottenuta con la fine della terza elementare – del quaderno aperto coi compiti per le vacanze. La notizia l’abbiamo imparata ieri dalla televisione e dalla radio, io ero fuori sull’altalena legata al ciliegio, mi hanno chiamata dentro. Il giorno dopo stampate sul giornale vedo le fotografie del crollo della stazione e dei cadaveri, a brandelli. Leggo a voce alta. “Ancora non si sa se sia stato un guasto alla caldaia o un attentato”, mio padre commenta che è chiaro come il sole che si tratta di un attentato. Dunque mio padre conosce cose che il giornalista ignora o vuole tacere, e le conosce nella stessa maniera in cui mia madre, quando dobbiamo andare ai magazzini coperti in centro a Reggio, dice che è meglio parcheggiare lontano dal carcere, che è lì attaccato, perché non si sa mai.
I miei genitori sanno, come due anni fa sapevano che le Brigate Rosse non avrebbero rilasciato Moro, che sarebbe morto e infatti l’hanno trovato ucciso e la mia maestra a scuola si è messa a piangere. È un sapere triste, questo dei miei genitori. M’insegnano che la realtà è piena di cose oscure, infide.
C’è un pericolo che incombe ovunque, ma non lo si può nominare, non ha mai un nome esatto. Brigatisti, terroristi, servizi segreti, eversione nera, terzo ordine, prima linea, ordine nuovo, gli alleati, i palestinesi, i massoni, la Cia, il Pcus. Nomi che schizzano senza trovare un disegno, senza produrre un senso, ma cadaveri e paura.
Ritaglio dal giornale una delle foto e la didascalia che l’accompagna, la incollo sul quaderno. Scrivo: Reggio Emilia dista da Bologna 70 chilometri circa, a volte passiamo dalla stazione per andare al mare, io mia madre e mio fratello, poi papà ci raggiunge con la macchina. Su quel treno avrei potuto esserci io, la bambina morta con le gambe schiacciate e la testa nera di fumo avrei potuto essere io.
Lascio che la colla si asciughi poi chiudo il quaderno. Sulla copertina c’è una mia coetanea che accarezza un coniglio bianco.

A distanza di tanti anni, trentaquattro a esser precisi, quando passo davanti alla grande cicatrice che tiene uniti i due muri crollati della sala d’aspetto, leggo i nomi delle vittime e rifletto sul fatto che senza nessun merito o ragione io sono viva e loro no. Poi penso che non è questo il modo per far parlare il passato, di far buon uso della memoria.
Indagini e processi, imputati e condannati, mandanti mai individuati, cortei, interpellanze parlamentari, comizi e fischi, un milione di documenti d’archivio, interviste, la testimonianza dei superstiti, ho attraversato i gironi di questo inferno per capire. Ho provato anche a dire. Ma la parola mi muore sempre in bocca, mi sigilla le labbra la stessa colla pastosa che fece aderire il ritaglio di giornale al foglio del compito, il tentativo di condivisione dell’ingiustizia subita da tanti, che potevano essere me. La via per riparare l’offesa: sentirla come propria. Il mio modo per dire ai morti che non li ho dimenticati.

(Questo racconto è uscito nell’antologia Il nostro due agosto (nero), 44 racconti sulla strage di Bologna raccolti e curati da Luca Martini, Antonio Tombolini Editore, 2015.)

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