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One more cup of coffee

Quel pomeriggio rischiavo di rimanere chiusa nell’appartamento, la porta scorrevole che separava la mia stanza dal resto non ne voleva sapere di aprirsi, era sempre stata cigolante e bisognava strattonarla con forza per farla scorrere, nonostante avessi passato un po’ di cera sui vecchissimi binari di legno e metallo. Forse il caldo aveva dilatato i materiali, come succede con gli strumenti musicali. Al decimo tentativo cominciai a perdermi d’animo, avrei fatto tardi alle prove se non fossi uscita entro cinque minuti da quel buco di casa che condividevo con altre due ragazze, e nessuna di loro, disgraziatamente, si trovava lì per darmi una mano. Cominciai a girare per la stanza come un topo in gabbia. A ogni passaggio davanti allo specchio mi dicevo: calma Donna, calma. Però i miei capelli, a lungo spazzolati e lucidi, e caldi sulla schiena in quella giornata già parecchio calda, dicevano qualcosa di diverso; sì erano i miei capelli riflessi, e non i miei occhi, o chessò la mia espressione a ricordarmi che non ero più Donna, ma Scarlet. Scarlet Rivera, violinista. A maggior ragione dovevo uscire da quell’appartamento. Mi affacciai alla finestra che dava sulle scale antincendio. A volte sul pianerottolo si sedeva a fumare Lynn, la vicina di casa, che era la portinaia del condominio. Ebbi fortuna, Lynn se ne stava proprio lì, sigaretta in mano, gli occhi sul giardino incolto infestato da piccole tende, forse giochi di bambini. La chiamai e le spiegai che non riuscivo ad aprire la porta della mia stanza. Lynn propose di saltare dalla scala antincendio alla mia finestra, ma subito dopo notò l’inutilità della manovra, saremmo state entrambe dalla stessa parte della porta, molto meglio che lei si trovasse sul lato opposto. Aveva le chiavi, poteva entrare dall’ingresso. Fino a quel momento avevo ignorato che ci fosse qualcun altro in possesso delle chiavi di casa mia e, per quanto turbata all’idea, non potevo che benedire la coincidenza. Lynn sparì dal pianerottolo e dopo cinque minuti la sentii armeggiare alla serratura. Doveva indossare un paio di scarpe molto leggere, o ciabatte da camera perché il suo passo nella mia direzione fu quasi inudibile e quando disse: “Hey, Donna, sei sempre lì?” ebbi un sussulto, come se qualcuno mi avesse preso alle spalle.

Era Scarlet Rivera a dover uscire, per non essere in ritardo alle prove, per non perdere quella manciata di occasioni che vagavano nell’aria surriscaldata di New York, un pomeriggio di fine giugno. Donna Shea, nata a Chicago, Illinois, 25 anni prima, forse non avrebbe avuto tutta questa fretta, o la sensazione che ci fosse qualcosa, là fuori, di imperdibile. Ed era Donna Shea che Lynn aveva registrato sul contratto, sul libro degli inquilini, quelli di cui teneva i documenti, e il doppio delle chiavi.

“Sai, Lynn, ho una certa urgenza, non vorrei mancare le prove, dopodomani ho uno spettacolo. Ci tengo molto.” Era molto più di quanto le avessi mai detto di personale, in precedenza avevo scambiato con lei solo saluti occasionali. Dall’altra parte della porta Lynn sembrò accorgersene, perché disse: “Non ti preoccupare, risolviamo la cosa e ti spedisco fuori col tuo violino”. Be’ certo, mi aveva sentito suonare, e di sicuro mi vedeva uscire e rientrare con lo strumento in spalla. Non so che idea si fosse fatta. New York è sempre piena di gente che viene da fuori e vuole diventare qualcuno, ne doveva aver visti parecchi, e a dire il vero nemmeno io sapevo bene chi fosse Scarlet Rivera, o cosa sarebbe potuta diventare. All’epoca vivevo in uno stato di mistica attesa, a volte fiduciosa, a volte fatalisticamente rassegnata.

Decidemmo di provare a spingere insieme, nella medesima direzione. Prima a destra, poi a sinistra. Si trattava di addossarsi con la spalla alla porta, cercando di sollevarla dal binario. Tentammo un paio di volte senza successo. Intanto per placare la mia ansia – doveva avvertirla attraverso lo spessore di legno che ci separava – Lynn non smetteva di parlare.

“Non bisogna mai forzare una porta. Cerchi di farla scorrere, di capire dove si è inceppata, se c’è, ad esempio, un pezzo di carta e qualcosa che si è messo di traverso o dentro il binario, qua sotto. Fammi vedere. No, non si tratta di quello. Ma allora, senti, Donna. Non spingere. Allontanati un attimo. Lascia fare a me, come ti dicevo non bisogna forzare. Poi anche la porta lo sente che sei nervosa. Ecco, bisogna parlarci con le cose.”

Mi aveva chiamata Donna, com’era logico, ma la mia mente tesa come una trappola mi diceva che forse era proprio quel nome che aveva bloccato la porta. Presèntati col nome sbagliato e il mondo ti dissobedirà.

Sentii che bisbigliava. Trattenni il fiato. Non avevo mai immaginato che Lynn potesse fare discorsi del genere. Per quello che ne sapevo era una donna tuttofare, minuta, sulla quarantina, i capelli corti, generalmente vestita con una tuta di jeans a salopette e camicie a quadri, un maschio insomma, probabilmente lesbica, ma non il tipo che parla con le porte o coi muri. Invece.

Rimasi ferma in attesa, i capelli mi facevano caldo sulle spalle, ma avevo smesso di scostarli. Il violino dentro la custodia appoggiato a terra, guardavo le vene dei miei piedi gonfiarsi dentro le ballerine estive, mentre scalpitavo stando ferma.

Poi la porta si aprì di scatto e apparve Lynn.

“Come hai fatto?!”

“Oh, non lo so nemmeno io. Ma c’è sempre un verso per prendere le cose, le porte soprattutto”.

La faccia ossuta di Lynn era percorsa dalle contrazioni di uno sforzo che dissipò subito sorridendo. Ero contenta di vederla, avrei voluto abbracciarla, ma lei disse in fretta: “Adesso corri, o perderai la tua occasione”.

Ok, dissi piena di gratitudine e sgattaiolai fuori con il violino in spalla.

Sotto terra, nella luce del neon della metro ripensai a quello che era successo e mi parve incredibile, una di quelle cose che potevano succedere solo a New York e che confermavano l’idea che la città fosse un giacimento di mitologie sempre sul punto di avverarsi o di seppellire se stesse, come gli odori potenti – di muffa, di carta, di piombo, di cibo, di pelle umana, di verdure marce, di birra, di piscio, di vecchi tappeti, di cipria – che a certe svolte ti invadevano reclamando di essere decifrati, ricollocati in una memoria personale anche se era chiaro che venivano dalle storie di tanti altri, di sconosciuti, di tutti quelli che come te ogni giorno avevano calcato gli stessi marciapiedi, portato il loro corpo, una chitarra, un violino, un tamburo, un libro di poesie, una pizza dentro un cartone.

All’uscita della metro, fui investita dalla musica che veniva da un negozio, Donna Summer cantava “Love to love”. Strinsi il violino, come se qualcuno volesse portarmelo via. Avevo ancora un paio di isolati da fare, ma non ero troppo in ritardo. Affrettai il passo. Mentre ero così, in marcia, sentii il rumore di un’auto rallentare e poi quello del finestrino che si abbassava. A dire il vero qualche secondo prima avevo sentito la forza di uno sguardo appoggiato alla mia schiena, ai capelli e al violino.

Come si avverte il peso di uno che ti guarda senza vederlo? È una di quelle cose difficili da spiegare, ma per un musicista non è così difficile da capire, capita sempre di sentire che gli occhi di chi suona con te, o ti ascolta, ti stiano attraversando prima ancora che tu li abbia visti. Io mi sentii avvolta prima ancora di sapere che la macchina stava accostando e qualcuno dal finestrino mi parlava. Cosa che in effetti mi aveva messo in allarme, non sono il tipo da dare confidenza, e tanto meno a sconosciuti a bordo di un’auto che senza motivo rallenta sulla Second Avenue in direzione East Village. Gli sconosciuti erano due: la donna che mi rivolse la parola e l’uomo che se ne stava un po’ nascosto, la faccia sotto il cappello. Mi ricordava qualcuno, chi, lì per lì non avrei saputo dire. Anche lei aveva un’aria familiare, o forse non proprio familiare, ma una faccia e un modo di tenere i capelli, legati con una coda bassa, che appartenevano alla moda di un decennio addietro. La donna mi chiese come mi chiamavano. Non esitai. Scarlet Rivera, risposi tenendo stretto il violino, come fosse un’arma di difesa, o la mia firma nell’aria che ci separava. La sua attenzione cadde subito lì, infatti, se già non vi era stata portata fin dall’inizio.

“E quello – indicò col dito indice pieno di anelli – lo sai suonare?”

“Direi proprio di sì.”

“E dove stai andando ora?”

“Alle prove, anzi ora devo proprio salutarvi” dissi, girandomi e dandomi della stupida per aver prestato attenzione a due che, nella migliore delle ipotesi, erano un pappone e una prostituta che provavano ad adescarmi.

“Aspetta un momento, potremmo darti un passaggio, siamo anche noi musicisti. Di ritorno da un tour europeo. Per questo ci vedi così malconci.” E indicò l’uomo che le sedeva di fianco, che continuava a stare zitto, ma che dopo quella frase non poté impedirsi di sorridere, un riso trattenuto che gli increspò le labbra e i peli della barba e mi fece ricollegare all’istante il barlume della somiglianza intravista da principio con la faccia nota di Bob Dylan. Sì, proprio lui, Bob Dylan. Li guardai meglio nell’interno dell’auto ferma, in attesa di una spiegazione o forse solo incredula. Non è che sotto il sole mi ero fusa il cervello? La donna continuò con quella storia del tour europeo e disse anche che erano ungheresi e che gli ungheresi hanno un modo di suonare tutto speciale per cui si rovinano le unghie. Lo disse mostrandomi ancora, fuori dal finestrino, la mano e le unghie, devo ammettere, non proprio perfette. A quel punto, l’uomo che assomigliava a Bob Dylan, disse: “Sheena, piantala di dire stronzate”. Anche la voce era la sua, quella voce aspra e così poco invitante, ma non era arrabbiato, divertito semmai. Poi scostò il cappello e girandosi di pochissimo verso di me, disse: “Senti noi scendiamo al Village, a suonare un po’, ti va di venire con noi?”.

Mi ritrovai seduta sul sedile posteriore, travolta da una decisione e da una coincidenza che solo la mistica aspettativa che mi accompagnava da quando ero in città potevano non dico giustificare, ma in qualche modo prefigurare. Non dissi, né chiesi altro per tutto il viaggio. Dopotutto se uno riconosce di aver vissuto in mistica attesa, poi deve anche accettare con totale abbandono quello che gli capita. Bob ogni tanto mi spiava dallo specchietto retrovisore e lasciava che Sheena continuasse con le sue buffonate.

Andammo sul serio a fare musica, nello studio di Bob, giù al Village, e che altro avrei potuto fare con quei due? Qualunque cosa accadesse quel pomeriggio, valeva la pena perdere le prove con la band latinoamericana con la quale suonavo, al tempo, per venti dollari a serata.

Appena entrati in studio Bob prese una chitarra e cominciò a eseguire una canzone che non avevo mai sentito, nonostante conoscessi il suo repertorio abbastanza bene. Gli tenni dietro. La canzone era quella che poi sarebbe stata incisa e divenuta famosa col titolo “One more cup of coffee”. Non la eseguì tutta e presto cambiò anche strumento, si mise al pianoforte e lì attaccò quella che sarebbe poi diventata “Isis”, che aveva per me il suono delle ballate irlandesi con cui ero cresciuta, o almeno quella fu la mia chiave per entrare dentro il pezzo e accompagnare Bob, cercando di trovare lo spazio giusto per il mio violino.

Quando suoni insieme a qualcuno ci può essere intesa sulla tecnica, intesa sulle note, intesa sullo spirito della musica, e qualche volta, attraverso la musica la percezione più sottile dell’anima di chi la esegue. Direi che con Bob, non potendo esserci nessuna delle prime cose elencate, ci fu soprattutto l’ultima. E lì, non in seguito, capimmo entrambi che avremmo potuto fidarci l’uno dell’altro, che già ci fidavamo. Sheena, che per tutto il tempo in cui avevamo suonato era stata allungata su un divanetto accendendo bacchette di incenso, ora mi guardava più incoraggiante, e sembrava aver dimenticato del tutto la domanda con cui mi aveva fermato solo qualche ora prima: ma lo sai suonare quel violino? Be’, mi sembrava di averlo dimostrato. Bob era così soddisfatto che mi invitò a passare la serata con loro, ci raggiunse un suo amico e andammo all’Other End, dove mi presentò a un sacco di gente, musicisti altri amici, dicendo che suonavo con lui, che avrei suonato con lui. Non avevo idea di dove e come, e forse nemmeno Bob, in quel momento. La sua musa si era sempre nutrita di istinto, improvvisazione e spontaneità, così diceva, e io lì in mezzo, non ero la prova vivente che aveva sempre trovato ciò che cercava? Intanto eravamo andati ad ascoltare Muddy Waters in persona. Sheena, dopo un paio di bicchieri, mi disse: “Sai, mentre eravamo a zonzo in macchina, Bob ha detto che aveva bisogno di una violinista, poi ha visto te, con quella gonna lunga fino ai piedi e i capelli alla vita, il violino in spalla. Sei stata un’apparizione. L’incarnazione di un suo desiderio.” Aggiunse che le cose erano parecchio cambiate, rispetto ai tempi del Gaslight, che poi non esisteva nemmeno più, e che adesso Bob era in cerca di nuova ispirazione. Non capivo bene a cosa si riferisse, anche in questo caso, ma di sicuro quella era tutta gente in pista da diversi anni, che aveva condiviso la musica e le esperienze, che si era cambiata il nome, come avevo fatto io, ma era successo talmente tanti anni prima che, tutti loro, coincidevano ormai con il nuovo nome, quello che si erano scelti, insieme alla musica, mentre io avevo avuto ancora una volta un’esitazione quando Bob prima di uscire dallo studio mi aveva chiesto di lasciargli scritti i miei recapiti su un foglietto di carta. Scarlet o Donna?

Annodandomi i capelli in una treccia, e alzandomi col bordo della gonna che spazzava il pavimento, mi domandai se Bob mi avesse adocchiata solo perché gli ricordavo qualcuno che attraversava la spiaggia dell’isola di Wight, diversi anni prima, per andare a recitare poesie, la mattina presto.

Li lasciai, con l’impressione che doveva essere stato tutto vero, ma che forse non sarebbe durato più a lungo del tempo che avrei impiegato a varcare la soglia del locale e infilarmi nella prima fermata della metro.

Attraversai la città come una sonnambula e quando rincasai nessuna delle mie coinquiline era sveglia. Tutto spento, tutto silenzioso.

In camera mi tolsi le scarpe e appoggiai il violino vicino al letto, spogliandomi in fretta. Nonostante fossi esausta faticavo a prendere sonno, dopo essermi rigirata un paio di volte mi alzai a sedere, misi una mano sulla custodia del violino e lo tirai fuori.

Cercai di ricordare la musica che avevamo suonato, quel pomeriggio. Premevo con le dita sulle corde, ma non osavo appoggiare l’archetto. “Your breath is sweath/ your eyes are like two jewels in the sky”. Avevo paura che la memoria delle note, in quel momento ancora presente, ancora in grado di riportarmi a una melodia, sarebbe svanita dopo il sonno. Di certo non potevo mettermi a suonare a quell’ora, mentre tutti dormivano, nonostante ne provassi un fortissimo impulso. Mi sembrava l’unico modo per poter tenere ferma la sequenza di avvenimenti che si erano succeduti da quando si era bloccata la porta della mia stanza a quando mi ero ritrovata a suonare nello studio di Bob Dylan nel Village. Era successo tutto per davvero. “Your back is straight, your hair is smooth/ on the pillow where you lie”. Padre irlandese, madre di origine siciliana, questa era Scarlet Rivera.

Sonno, paura, musica, sonno, voglia di suonare. Alla fine prevalse il sonno, mi addormentai col violino fuori dalla custodia, sentendomi molto Scarlet Rivera e temendo, un poco, di risvegliarmi inesorabilmente Donna Shea.

Il giorno seguente non mi diede il tempo di pensare, almeno fino a un certa ora perché avevo diverse lezioni private. Ma alle tre del pomeriggio mi ritrovai di nuovo sola in casa, e l’attesa non era più mistica, né rassegnata. Mentre mi preparavo un caffé, cercando di riannodare le parole alle note di “One more cup of coffee for the road”, squillò il telefono. Era Bob, mi chiese di raggiungerlo nello studio per provare con altri musicisti. Cominciò da quel momento un periodo in cui non feci altro che muovermi per la città e, soprattutto, da casa allo studio di Bob per suonare. Tutti i giorni artisti diversi, anche se alcuni rimanevano fissi, Stoner ad esempio. Non conoscevo quelle musiche, nessuno le conosceva, Bob le aveva appena composte e ci arrangiavamo a seguirlo, ognuno alla sua maniera, spesso con risultati non del tutto convincenti. Per me era tutto nuovo, ma sentivo che Bob vigilava su di me, l’azzurro congelato dei suoi occhi diventava più morbido quando mi guardava, sapeva che ero la più giovane, che non avevo esperienza di una band folk e che non ero mai stata in uno studio di incisione. Andò avanti così, con le jam session che si spostavano dal tardo pomeriggio a notte fonda, dal Village a Brooklyn, per diverse settimane. Bob diceva di avere in mente un tour, e un disco. Quando ci convocò nella sala di registrazione della Columbia, non era passato molto tempo dal momento in cui ci eravamo incontrati. Ero la neofita che entra per la prima volta in un tempio. Non sapevo il titolo dell’album, avevamo provato le canzoni fino allo sfinimento, e comunque anche stavolta Bob all’ultimo decise di cambiare il tono per alcune. Credo lo facesse perché rimanessimo concentrati e perché non smetteva mai di pensare che la musica era quel ‘wild unknown country, where he could go no wrong’, a patto di avventurarsi. E lui di certo era uno che si avventurava. Io mi sentivo come chi è stato preso per mano, mi sorprendeva ogni volta lo spazio che concedeva al mio strumento, là dove mi sarei aspettata la sua armonica o la sua voce, era come se arretrasse, per me e per il mio violino. Fu Sheena a dirmi, prima di accedere alla sala di registrazione: il disco si chiamerà Desire, e io entrai sospinta da quello stesso sguardo appoggiato sulla mia schiena, e sul mio violino, che ci aveva fatto incontrare.

(Il racconto è stato pubblicato all’interno dell’antologia Dylan Skyline,Nutrimenti 2015, curata da Filippo Tuena)

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