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Marilynne Robinson, Quel che ci è dato

Recensione al libro: Marilynne Robinson, Quel che ci è dato, minimum fax 2021

Troppo spesso dimentichiamo che gli Stati Uniti d’America, e in particolare gli stati del Nord e del Mid-West, furono colonizzati da europei – soprattutto inglesi all’inizio, poi francesi e tedeschi – che fuggivano da persecuzioni religiose. Fin dal tardo Medioevo il vecchio continente era stato percorso da movimenti riformisti sorti nell’alveo del cristianesimo stesso, ispirati da pauperismo in quanto provenienti dai ceti più umili della società, ma anche dal desiderio di accostarsi al culto in maniera più diretta, senza la mediazione di un clero arricchito e corrotto, il che essenzialmente significava poter aver accesso alle Scritture, riservate ai pochissimi che allora conoscevano il latino. John Wycliffe (1331-1384) per primo tradusse la Bibbia in inglese, oltre a produrre una monumentale opera di riflessione teologica, e venne per questo considerato eretico. Tre secoli dopo, nel 1620, approdavano a Cape Cod i cosiddetti padri pellegrini con la nave Mayflower: un gruppo di calvinisti provenienti dall’Inghilterra dove infuriavano, come nel resto d’Europa, feroci lotte di religione, a seguito della predicazione dei riformisti Lutero e Calvino. Erano gli eredi di una secolare lotta per la libertà di culto, sognavano una società ispirata alla applicazione della più pura e letterale etica cristiana, erano frugali e indefessi lavoratori. Ovviamente portavano con sé Bibbia e Vangelo tradotti.

I testi sacri della religione cristiana, nelle sue numerose ramificazioni scismatiche, sono pertanto alla base dell’atto di fondazione della cultura e della società americana, della sua idea di libertà e giustizia, e vi occupano uno spazio molto diverso rispetto alla lenta e stratificata fusione che hanno avuto con la cultura pagana del continente europeo. È importante ricordarlo perché altrimenti non capiamo, giusto per fare un esempio, né la citazione, rimaneggiata e divenuta celeberrima, da Ezechiele 25.17, pronunciata per tre volte da un criminale in Pulp Fiction, un film estremamente pop, né il dialogo costante che la letteratura americana intrattiene con il testo delle Sacre Scritture, facendoci ritrovare pastori, prelati, predicatori e questioni religiose al cuore dei romanzi che ne costituiscono i capisaldi.

Marilynne Robinson, studiosa di teologia, saggista e scrittrice nota in Italia soprattutto per la trilogia di Gilead, affronta l’impatto del cristianesimo nella tradizione americana in una raccolta di saggi che minimum fax pubblica ora nella traduzione di Eva Kampmann, Quel che ci è dato (The Givenness of Things, ed. or. 2015).

Robinson, credente e praticante convinta, ammette che l’essere calvinista è forse la sua maggior provocazione, in una società di intellettuali decisamente mondanizzata, e rispetto a una vita, la sua, trascorsa in una produttiva quiete appartata. E però di questo suo essere cristiana e calvinista si assume tutta la responsabilità sia come studiosa e scrittrice, sia come cittadina; ecco allora che i diciassette capitoli che compongono la raccolta affrontano questioni storiche e culturali a largo spettro, come l’Umanesimo, tema di apertura del libro. Da qualche decennio circola, tanto in America quanto in Europa, uno svilimento degli studi umanistici, che poi si traduce in minori finanziamenti alla ricerca e in un ruolo marginalizzato di chi li pratica, che Robinson depreca non solo perché per umanesimo intende l’ammirazione per i raggiungimenti e le potenzialità della mente umana che il Rinascimento ci ha tramandato, riannodando i fili con la cultura antica, ma anche perché questo tipo di studi “costituisce una pessima preparazione alla servitù economica dei nostri tempi”. Pensare in maniera critica, allenarsi a conoscere e rispettare il pensiero altrui, cercare la meraviglia in sé e nel creato, ritenere che la mente e la vita siano un inesauribile mistero sono valori che l’umanesimo ha fissato e che riflettono, secondo Robinson, l’idea che l’umanità sia stata fatta a immagine e somiglianza di Dio. Tecnologia e scienza non sono né l’alternativa secca né il nemico dell’umanesimo; anzi le acquisizioni della fisica come la teoria delle particelle correlate, che pure a distanza e senza nessi causali si comportano nello stesso modo, insieme alla teoria delle stringhe che introduce altre dimensioni rispetto a quelle a noi note della fisica classica, “hanno prodotto un’espansione e proliferazione dei nostri modelli di realtà e del possibile che porta con sé la presa di coscienza che la nostra condizione su questo pianeta, dentro il bozzolo dei nostri sensi, è fondamentalmente eccezionale e che quindi la nostra capacità di consapevolezza è ristretta in modi e gradi che non possiamo neanche stimare.” Se il progresso scientifico avvalora l’idea umanistica che concepisce la mente umana come uno strumento di responsabilità e conoscenza nei confronti del creato, qual è la branca del sapere che rema contro l’umanesimo? Per Robinson si tratta delle neuroscienze, nella loro vulgata più materialista e neo-darwiniana. Senza peraltro mai nominarlo, Robinson si scaglia contro l’idea che l’evoluzione animale e umana sia regolata dal principio dell’omeostasi coniato da Antonio Damasio, e che i sentimenti, le emozioni, i pensieri possano essere ridotti a pura reazione chimico-fisica. Non nega che questa vi sia, e che possa illustrare un processo in atto, ma che possa spiegare la storia e la complessità del cervello e di tutto ciò che chiamiamo civiltà le sembra puro riduzionismo. L’imaging del cervello di Shakespeare ci avrebbe spiegato la sua genialità? – chiede provocatoriamente.

Ma a preoccupare Robinson non è solo questa “fretta di sgravarci di noi stessi e di diminuire l’uomo” che imputa alle neuroscienze, ma anche il fatto che negli Stati Uniti si sia prodotta una spaccatura profondissima fra identità cristiana, che tutti più o meno reclamano, specie quando si tratta di ottenere consensi politici ed elettorali, ed etica cristiana. Capitoli come Risveglio, Declino e Paura, descrivono i fenomeni noti alle cronache di tutto il mondo di una nazione armata fino a denti, intollerante e razzista quale si è riscoperta negli ultimi decenni, dove anche un ragazzino munito di fucile può fare una strage in una scuola o in un cinema, un nero può essere ucciso dalla polizia senza ragione, uno stato può ripristinare la pena di morte e giustiziare centinaia di detenuti, il tutto senza che ci sia mai un confronto sui valori cristiani che si dissociano in maniera perentoria da queste pratiche. Che cosa resta dunque dei coloni alla ricerca della libertà di religione, e pronti a porre Bibbia e Vangelo alla base del loro agire, quando siano diventati soprattutto un popolo di proprietari, di sfruttatori e sfruttati rancorosi? Sono domande che Robinson pone esaminando la storia passata e recente del suo paese, la divisione fra Nord e Sud, l’illuminismo abolizionista e lo schiavismo alla base della proprietà. Nel suo voler ricondurre tutto, perfino Shakespeare, a una lettura da credente forse Robinson trascina il lettore nell’ambito non sempre agevole di una certa atemporalità, di questioni morali e metafisiche illuminate da una luce astorica, perché chiamata davanti al giudizio non dell’uomo ma di Dio. In compenso, che si creda o meno, leggere i suoi saggi produce l’effetto di rivedere le occorrenze della vita sub specie aeternitatis, ovvero di accorgersi che la trascendenza è una reale spinta a essere migliori, più giusti, più assetati di conoscenza e di rispetto per il prossimo.

(la Lettura, 14 febbraio 2021)

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