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Anna Banti, “Artemisia”

Recensione a: Anna Banti, Artemisia, a cura di Daniela Brogi, Mondadori 2023

Il 3 ottobre 2020 inaugurò alla National Gallery di Londra un’imponente mostra dedicata ad Artemisia Gentileschi (Roma 1593- Napoli 1654) a cura di Letizia Treves; era la prima monografica mai dedicata a una artista donna dalla prestigiosa istituzione londinese. Non era peraltro isolata, numerose altre nel corso degli ultimi trent’anni si erano susseguite e altre ne sarebbero venute, sparse per i musei europei, come ad esempio quella che da poco aperta a Palazzo ducale di Genova a cura di Costantino d’Orazio e Barbara Grosso.

La crescente fortuna critica di questa pittrice che nel 1916, quando Roberto Longhi le dedicava un articolo insieme al padre, il ben più noto Orazio Gentileschi, contava un catalogo che non superava la decina di dipinti, mentre oggi è quasi decuplicato (come il loro prezzo peraltro), è intrecciata a doppio filo a quella del romanzo a lei dedicato da Anna Banti, uscito nel 1947 e ora ripubblicato da Mondadori per la cura di Daniela Brogi che firma un’introduzione e un saggio finale accompagnato da immagini di alcune opere pittoriche, impegnandosi in un corpo a corpo con le due facce di quest’erma bifronte: la biografia romanzata di una pittrice e l’invenzione-rivelazione della scrittrice Anna Banti, nata Lucia Lopresti, coniugata Longhi (Firenze 1895-Massa 1985).

Fin dall’incipit – “Non piangere” – le due voci sono infatti sovrapposte: quel tu poetico che interpella il lettore, si rivolge tanto alla scrittrice Anna Banti, che ha perso il primo manoscritto del romanzo nei bombardamenti su Firenze, fra il 3 e il 4 agosto del 1944, quanto alla ragazzina di grandissimo talento che nel 1612 dovette sostenere un processo per lo stupro subito da Agostino Tassi, il pittore al quale il padre Orazio l’aveva affidata per migliorare la sua arte.

L’alternanza fra queste due voci, il loro frammentario parlarsi in controcanto fino fondersi talvolta, insieme alla temporalità mai lineare sempre tesa fra presente e passato, costituiscono alcuni degli elementi con cui Banti costruisce un romanzo che a pieno titolo Brogi definisce modernista e anticipatore di molti dispositivi narrativi in cui l’io si parcellizza e si sdoppia, nelle acrobazie della biofiction o autofiction che tanto successo hanno goduto in tempi recenti.

“Artemisia è il nome di una pittrice, dunque; è il titolo di un libro; è il simbolo di battaglie contro la violenza sulle donne; è, infine, il nome di una finzione romanzesca. Artemisia però non è un saggio, né un romanzo storico e nemmeno una biografia classica, ma un testo di invenzione in cui si rielaborano documenti d’archivio studiati direttamente, intrecciandoli a competenze storiche, letterarie e critiche”, scrive Brogi con una sintesi che è già strumento di lettura tanto del romanzo quanto della figura di Banti, ingiustamente lasciata ai margini del canone letterario.

Artemisia non fu un esordio per Banti ma il romanzo in cui sigillò quella che divenne poi la sua cifra peculiare: “scrivere di quello che la Storia tace a se stessa”. Utilizzare tutto il bagaglio della sua formazione storico-artistica per attraversare il tempo, restituire voce a una pittrice poco conosciuta come Artemisia o ai garibaldini della spedizione dei Mille in Noi credevamo (1967).

Quanto debba essere stato faticoso e ostile il passaggio dalla storia dell’arte, e dal ruolo di moglie del celebre Roberto Longhi, a quello di scrittrice in proprio si capisce dall’ultimo libro di Banti, Un grido lacerante (1981). Ma è proprio la consapevolezza di come il genere sia decisivo per una donna, nella lotta per l’affermazione di un linguaggio proprio e di una carriera artistica, ciò che Banti trasferisce dalla sua esperienza a quella di Artemisia, rendendola viva ai nostri occhi. E se è vero, come ricorda Brogi, che la vicenda dello stupro viene fornita fin da subito nell’avvertenza al lettore: “Oltraggiata, appena giovinetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro” – scrive Banti – è altrettanto vero che la scrittrice decide con una efficacissima ellissi di non raccontare nei dettagli stupro e processo, pur avendone lei stessa trascritto le carte nel 1939. Felice scelta stilistica, tanto più apprezzabile se confrontata con la centralità voyeuristica e distorta data alla vicenda nella versione cinematografica di Agnès Merlet, Artemisia. Passione estrema (1997) o nel romanzo di Susan Wreeland, La passione di Artemisia (2003).

Banti muove, viceversa, dalla precisa intenzione di dare una forma al destino e alla vocazione della pittrice che non fosse schiacciata dalla violenza patita: Artemisia infatti non se ne fece schiacciare, ma seppe attraversarla e rielaborarla, e non dovette essere facile per una giovane donna marchiata dalla vergogna e dalla riprovazione sociale. Il dipinto, ora a Pommersfelden, Susanna e i vecchioni, un tema su cui la pittrice tornò più volte, le due versioni della Giuditta e Oloferne, ora agli Uffizi a Capodimonte, esprimono questo attraversamento della violenza, subita in prima persona e incistata in una società in cui, a quattro secoli di distanza – commenta Brogi – “il paradigma storico culturale e simbolico che equipara prepotenza e virilità è ancora in piedi”.

Un confronto coi medesimi soggetti trattati da artisti uomini, Caravaggio ad esempio, ci dà la misura di quanto lo sguardo maschile sfumi i contorni della violenza, idealizzando il corpo femminile, mentre Artemisia fa vibrare il sangue, la ripulsa, la paura; nella sua pittura le storie delle eroine bibliche diventano storie quotidiane delle donne.

Banti con acuta cognizione di causa rifugge la prosa d’arte e le descrizioni ecfrastiche, viceversa ricostruisce il lavorio incessante dello sguardo pittorico di Artemisia in brani come questo: “Una bella occasione, questa lucerna, recata a mano da una donna bianca e bionda, che ogni passo forma un’ombra bizzarra: un’occasione da studiarci allo specchio per esercizio di quella pittura che oggi tanto incontra, di Gherardo Fiammingo”. E ci mostra l’asperità di comporre un racconto non risolvibile in dicotomie scontate (il genio e il trauma, la vittima e la riscossa), con mosse metanarrative che mettono in campo l’autrice, spiazzano, e suggeriscono una ricerca di verità superiore: “Trecento anni di maggiore esperienza non mi hanno insegnato a riscattare una compagna dai suoi errori umani e a ricostruirle una libertà ideale, quella che l’affrancava e la esaltava nelle ore di lavoro, che furono tante”. Artemisia troneggia, ora, fra i pittori caravaggeschi; è tempo di riportare anche Anna Banti al posto che le spetta.

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