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Arthur W. Frank, Il narratore ferito

Recensione al libro: Arthur W. Frank, Il narratore ferito. Corpo, malattia, etica, a cura di Christian Delorenzo, Einaudi 2022

In principio è il dolore. Si potrebbe dire di molte narrazioni che germinano e prendono forma intorno a una ferita, uno strappo nell’ordinario dell’esistenza che induce a metterla in discussione e a riorganizzarne gli elementi in cerca di un nuovo senso, o di un senso tout-court di cui prima non si avvertiva l’esigenza. Colpito nel fisico, in quanto cieco, è Tiresia, l’indovino della mitologia greca, in grado di predire il futuro e di fornire, a chi lo interroghi, racconti che danno una direzione all’agire. Anche Omero, cui si attribuiscono Iliade e Odissea, è da tradizione cieco. Ferito gravemente a una gamba è il profeta Giacobbe, dopo una lotta estenuante con l’angelo che egli non sa essere tale, cioè emanazione diretta del divino. Basterebbero queste figure della letteratura per stringere il nesso fra sofferenza fisica e racconto, ed è quello che il sociologo canadese Arthur Frank si propone di esplorare con un libro uscito per la prima volta nel 1995 e tradotto ora da Einaudi, Il narratore ferito. Corpo, malattia, etica, a cura di Christian Delorenzo. Per sgomberare subito il campo da possibili equivoci occorre dire che il narratore ferito non è, per dubbio privilegio compensatorio, solo colui che ha subito una perdita o un’ingiuria, Frank chiarisce che tutti noi siamo potenziali o attuali narratori feriti in quanto viviamo in un’epoca in cui il racconto del sé non può prescindere dall’interruzione della salute, dal confronto con la medicalizzazione del corpo e dallo scarto che si produce tra quest’ultima e il vissuto, poiché sono queste esperienze che caratterizzano il postmoderno, in un’accezione che è culturale ma che l’autore sembra usare soprattutto per distinguerla dalla modernità. Alla modernità appartiene ancora il discorso della medicina che si appropria del corpo, lo classifica, lo determina, lo colonizza anche dal punto di vista linguistico, ponendo come traguardo unico la guarigione. Esemplare in tal senso è il tipo di narrazione che da sempre la pubblicità ci propina: il raffreddore, o qualsiasi altra forma di interruzione di salute, presentata come momentanea e risolvibile grazie all’intervento, più o meno prodigioso, di un farmaco ed eccoci tornati alla normalità. La logica pubblicitaria sottende quella che Frank chiama la forma della restituzione: il passaggio nel mondo dello star male deve essere subito sostituito da quello dello star bene, possibilmente cancellando ogni segno del primo. Se per Susan Sontag si poteva essere cittadini dei due mondi in maniera alternata, e portando dentro di sé una frattura, oggi secondo Frank siamo entrati in un’èra che non è più (solo) quella della guarigione, ma in maniera assai estesa quella della remissione: da molte malattie non guariamo mai del tutto, possiamo vivere in un prolungato stato di remissione, o cronicizzazione, per il quale la medicina non ha parole, non possiede letteralmente un racconto. Ed è questo il terreno su cui sono emerse istanze nuove, che il sociologo vuole legate allo spiccato individualismo del nostro tempo e, con un’accezione positiva, al desiderio di ciascuno di esprimere con voce propria l’esperienza della perdita di salute. Se esulano, per difetto o eccesso, da una parabola di guarigione e di medicalizzazione, cosa sono le storie di malattia? Innanzitutto sono racconti dal corpo, cioè tentativi di dare parola all’entità che, per Zygmunt Bauman, più si oppone alla sopravvivenza, e ci riconduce viceversa alla contingenza, alla mortalità. Il corpo soffre, si deteriora, invecchia: inevitabilmente, nonostante i progressi della medicina e il tentativo di rimozione della morte che qualifica la società contemporanea. Accettare di attraversare queste esperienze trovando parole per dire la rabbia, il rifiuto, il lutto, ma anche la speranza, significa accettare un modello di ricerca di sé che fa della contingenza e della deperibilità un’occasione di conoscenza. La condizione postmoderna, secondo Frank, rivendica in maniera legittima il diritto a raccontare questi passaggi, il diritto a sottrarre la malattia alla sola terminologia medica. Dal disturbo fisico non sempre si esce guariti, di certo sempre cambiati. Di fatto è il corpo stesso il messaggio di questo racconto, è il sé cambiato, provato, visto sotto una luce diversa, poiché la malattia ci obbliga a confronti tra un prima e un dopo, ci obbliga a lavorare con la memoria e a metterci in relazione con gli altri, sani o ammalati che siano. La malattia investe tutti gli aspetti della vita: da quello psichico a quello sociale e lavorativo, poterne parlare significa riconoscerne l’aspetto politico, implicito in qualsiasi discorso sul corpo.

Se da un lato l’istanza e i benefici del raccontare sono stati nell’ultimo trentennio riconosciuti e fatti propri dalla medicina narrativa e da quelle discipline conosciute come Medical Humanities che cercano di intrecciare letteratura, psicologia e cartelle cliniche, dall’altro non tutti i pazienti hanno la stessa capacità di elaborare e verbalizzare il proprio vissuto. Le frequentissime citazioni che Frank utilizza dai Diari del cancro di Audre Lorde, non devono farci dimenticare che si tratta di una grande poetessa e saggista. Al tempo stesso la sua presa di parola contro il silenzio – Lorde scrisse quel testo all’inizio degli anni ’80 – è stato di esempio e ha dato il via a una condivisione anche per chi di quelle parole era privo; non solo: ha responsabilizzato chiunque, personale sanitario incluso, abbia a che fare con la malattia. E qui viene l’aspetto etico di cui parla Frank: chi entra in contatto con il disagio ha il dovere di riconoscerlo, dargli spazio, provare empatia, poiché tutti nel breve o lungo termine andiamo incontro alla morte, ma il come fa un’enorme differenza. Il come è proprio ciò che caratterizza l’individualità delle storie e la possibilità di poterle scambiare. Torna utile all’autore la convinzione espressa da Walter Benjamin nel testo del 1936, Il narratore: “Non c’è racconto a cui non si possa porre la domanda della sua continuazione”. Il libro di Frank fa riflettere anche sul presente: dopo due anni di pandemia, in molti ancora si ostinano a invocare un ritorno alla normalità che appare ingenuo, ed è una forma di rimozione: non sarebbe meglio imparare ad avere a che fare, muniti di tutto l’ingegno e le risorse possibili, con la contingenza, autentica cifra del vivente?

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