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Caterina Bonvicini, “Molto molto tanto bene”

Recensione al libro: Caterina Bonvicini, Molto molto tanto bene, Einaudi 2024

Dopo aver scritto il réportage narrativo, Mediterraneo. A bordo delle navi umanitarie (Einaudi 2022) Caterina Bonvicini attinge ancora alla propria esperienza di plurime missioni di salvataggio dei migranti per raccontare la storia dell’incontro con una bambina e una madre, cui poi si aggiungerà il fratello gemello della bambina e un’amica della madre nel romanzo autobiografico Molto Molto tanto bene

Il titolo sgrammaticato ci introduce fin da subito alla dimensione affettiva straripante e a sua volta fuori da ogni possibile grammatica, da ogni possibile addomesticamento, che l’autrice instaura con questo piccolo nucleo di ivoriani, fuggiti dal proprio paese, passati attraverso Mali, Algeria, Libia e infine il mare.

Quello che scocca nella concitazione di un salvataggio difficile e pericoloso, come Caterina Bonvicini ci ha insegnato essere tutti i salvataggi, è un amore a prima vista per la bambina che indossa un’elegantissima cuffia di lana e strass e che, meglio di tanti più grandi di lei, riesce a dominare la paura e a prendersi cura perfino della madre, una ventiduenne che sembra avere fatto la traversata in stato di semincoscienza.

Un amore ricambiato perché una volta al sicuro sulla nave umanitaria Amy, questo è il nome di fantasia della bambina, cerca lo sguardo di chi l’ha salvata: vuole parlare, giocare, disegnare con lei. E questo segna per l’autrice, che è voce narrante, una svolta di senso; se è vero che ogni vita salvata potrebbe rivelare la sua unicità e peculiarità, e al tempo stesso essere paradigmatica di una vicenda – quella migratoria- accompagnata da costanti come il dissesto geopolitico, la violazione dei diritti umani, la violenza e le torture, è altrettanto vero che non è possibile amare tutte le persone ripescate da una sicura morte in mare, anzi che è meglio mantenere un distacco professionale, non uscire dal proprio ruolo perché i bisogni esistenziali ed emotivi di queste persone, il loro passato traumatico, le loro aspettative eccedono di sicuro la capacità di chiunque di farsene carico. Questo è quello che Caterina Bonvicini ha imparato dalle proprie colleghe con maggior esperienza, questo è quello che si ripete, sforzandosi nei momenti di pausa sulla nave, fra una sigaretta e un caffè condivisi tra i turni di sorveglianza, di portare l’attenzione altrove, di concentrarsi sulle manovre del rescue che richiedono forza, velocità, precisione, coordinamento di squadra e nervi tanto saldi.

Ma Amy e la madre Chantal, una ragazza bellissima quanto sfuggente, rompono il rigore di questo schema fin da subito e così l’autrice si trova coinvolta in una relazione in cui prima è chiamata tatà poi mamam chèrie, senza che sia chiaro di chi, se della bambina o di entrambe, e presto anche del fratellino rimasto in Libia con Odette, un’amica della madre. Mentre Amy e Chantal sono, in pieno covid, dentro un Cara (centro di accoglienza per richiedenti asilo) in Calabria, l’autrice cerca di aprire un corridoio umanitario per far arrivare il fratellino Bubà dalla Libia, si rivolge al consolato italiano, alla Caritas, all’UNHCR, smuove mari e monti ma Odette la precede: s’imbarca col bambino e compiono a loro volta, con la solita barca in mano a trafficanti, la traversata del Mediterraneo. Ricongiunti e salvi in Italia, Chantal, Amy e Bubà potrebbero iniziare una nuova vita e qui il racconto si fa quasi fiabesco, sentiamo il peggio alle spalle, una possibile felicità farsi strada. Un appartamento preso in affitto tutto per loro, l’inserimento scolastico, i corsi di lingua, la richiesta dei documenti per legalizzare la loro posizione, a tutto pensa con entusiasmo e pragmatismo Caterina Bonvicini, perfino a una vacanza in una villa toscana con piscina, il marito Ric e la bassotta Lola, amici e parenti stretti intorno in una festante famiglia allargata. Eppure non funziona, o funziona solo a metà, i bambini fioriscono in questa inattesa libertà e accoglienza, mentre Chantal si richiude in se stessa, non vorrebbe lasciare nemmeno il Cara, e presto viene fuori che è pronta a scappare di nuovo, a inseguire fantomatici amici, parenti, fidanzati con i quali parla fitto fitto al telefono.

“Cerco di capirla, ma non ci riesco. Lei non fa nessuno sforzo per capire me. Del resto non può immaginare la fatica che c’è dietro qualcosa di banale come la libertà” constata Bonvicini, pronta ad accettare che la parabola di salvazione da lei immaginata è destinata a scontrarsi con i traumi, le sofferenze, i desideri, la depressione e la confusione mentale di una giovane donna che un momento le affida se stessa e i suoi bambini, il momento dopo fa perdere le proprie tracce dietro una nuvola di bugie, di silenzi, di omissioni. E qui Caterina Bonvicini, pur narrando una vicenda tanto personale, tocca un nodo che riguarda chiunque: dove sta il confine fra la volontà di fare il bene altrui e l’autodeterminazione individuale che contro ogni logica, ogni buon senso, ogni convenienza cerca un’altra strada, sfugge alla mano amica di chi le ha dato salvezza?

È un confine destinato a spostarsi di continuo in questo romanzo che mescolando empatia, arguzia, ironia e tragedia, assume a tratti, toni picareschi nel tentativo di ricostruire le peregrinazioni in giro per l’Europa di questa giovane donna africana, cresciuta orfana, scampata a un matrimonio combinato dagli zii con un uomo di cinquantasei anni, vedova a ventidue anni, madre di due gemelli che sembrano prendersi cura di lei più che esserne i figli. Da lontano, attraverso videochiamate e messaggi, l’autrice manterrà un legame fortissimo con Amy, Bubà e Chantal, con la saggezza di chi ha riconosciuto un pesce impigliato nella rete e lo libera, lo riconsegna al mare, che è l’immagine potente e simbolica con cui si chiude il romanzo.

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