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Recensione al libro: Eudora Welty, Nozze sul Delta, minimum fax, 2020
A rileggere oggi Eudora Welty (Jackson, Mississippi 1909-2001) non si stenta a capire perché il premio Nobel per la Letteratura, Alice Munro, l’abbia sempre indicata come una delle sue maestre: avvolgente e piena di dettagli la scrittura di Welty coniuga la passione per lo scandaglio psicologico dei personaggi con il grande affresco sociale. Ne offre un esempio magnifico Nozze sul Delta, il suo secondo romanzo, ripubblicato ora con una nuova traduzione di Simona Fefè da Minimum Fax. Originariamente uscito nel 1946, era stato subito tradotto in Italia da Longanesi nel 1947 e poi quasi dimenticato, mentre nel frattempo Welty nella sua lunga vita e carriera accumulava premi e riconoscimenti, fra cui il Pulitzer nel 1973 per La figlia dell’ottimista.
L’ambientazione è quella evocata dal titolo: la terra piatta, ricoperta da piantagioni di cotone a perdita d’occhio, e innervata dalla foce del Mississippi con le sue pigre anse e il bayou, la distesa acquitrinosa che si forma a ridosso del fiume e lambisce le porzioni coltivate. Siamo nel settembre del 1923 e la famiglia di proprietari terrieri Fairchild, che presta il proprio nome anche all’unico paese per diverse miglia prima di arrivare a Memphis o a Jackson, sta per celebrare il matrimonio della figlia diciassettenne Dabney con Troy Flavin, il sovrintendente delle terre, un uomo che ha il doppio dei suoi anni e le è inferiore per provenienza e posizione sociale. Ma i Fairchild sono magnanimi, generosi, tolleranti, innamorati della vita e della felicità, o almeno così amano autorappresentarsi; quindi le riserve e i dubbi su questa unione passano solo attraverso battute, accenni, sguardi che vengono scambiati dallo stuolo di zie, fratelli, sorelle e cugini di cui è composto il vasto clan familiare. Il cronotopo compattissimo in cui si svolge la vicenda – tre giorni prima del matrimonio e tre giorni dopo, senza mai abbandonare l’immensa tenuta con le sue varie magioni – descrive un microcosmo autosufficiente e quasi intangibile nelle sue leggi non scritte: la supremazia emotiva delle donne e il loro governo sulla casa e sulla vita in generale, la mitizzazione degli uomini, spesso indolenti e imperscrutabili, ma trattati come divinità, il ruolo subalterno dei servi neri ai quali si può dire di spostarsi anche solo perché rubano l’ombra, l’eco lontana ma tenuta viva dagli aneddoti e dai toponimi – ‘bayou’ deriva dalla lingua Choctaw, ad esempio – delle stragi di indigeni indiani fatte per conquistare quelle terre fertili e rigogliose.
Si tratta di un romanzo corale in cui alla miriade di personaggi si aggiunge il paesaggio come comprimario che promuove le pagine più liriche e ispirate, un accompagnamento e un contrappunto alla costante e mai dichiarata tensione erotica che aleggia in ogni pagina: un eros che è quello adolescenziale di Dabney, ma è anche quello di una fanciulla vagabonda che appare nel bosco in fuga da chissà che cosa, ed è infine quello di ogni personaggio verso la terra come fosse un unico corpo materno e fusionale. Lo slittamento continuo del punto di vista è la tecnica principale con cui il mosaico di rapporti familiari e sociali viene via via scomposto per rivelare dinamiche di potere meno idilliache, sotto la patina pervasiva di un eden fatto di pranzi all’insegna dell’abbondanza, pigri pomeriggi passati a strimpellare sul pianoforte, a inseguire animali nel bosco, a raccogliere rose o a sospirare sulle pagine di Belli e dannati, il romanzo di Fitzgerald uscito nel 1922. Sono personaggi appena esterni alla mitologia dei Fairchild che incrinano l’ordine: ad esempio la cuginetta Laura, orfana di madre, desiderosa di confondersi il più possibile con l’indistinto orgoglio familiare, con i modi gentili, ironici e seducenti che trova nei cugini e negli zii, ma al tempo stesso capace di capire quale morsa micidiale rappresenti: “Laura comprese che alla fine sarebbe partita, si sarebbe allontanata da quel mondo e sarebbe tornata dal padre. Ma per il momento decise di tenerlo per sé e baciò zio Battle”. O la moglie di George Fairchild, la piccola Robbie Reid, figlia di gente che non possedeva nemmeno un ettaro di terra, stretta fra l’amore passionale per il marito e la critica lucida che rivolge alla sua famiglia: “Siete tutti viziati, una famiglia di presuntuosi che pensano di esistere solo loro al mondo! Ma non è così! Voi non siete altro che una piantagione”. In verità, anche Ellen Fairchild, madre di Dabney e di altri otto tra maschi e femmine, pur compresa nel ruolo di moglie devota e indulgente, di madre onnipresente e sensibile, s’interroga a più riprese sulla natura dei legami familiari e sull’identità che ciascun individuo coltiva in relazione al clan, sull’idea di potere, di virtù e di superiorità che ne ha derivato. La consapevolezza di Ellen e di Dabney non si spinge oltre la considerazione che “le persone sono fatte di strati di violenza e tenerezza, avvolti l’uno sull’altro come bulbi”, mentre una più precisa messa a fuoco è affidata ai lampi di illuminazione di altre figure femminili, come Robbie Reid Fairchild o come Shelley, l’inquieta sorella di Dabney, che tiene un diario, vuole andare in Europa, e comincia a dubitare delle gerarchie: “E se un autentico uomo del Delta, un proprietario di piantagione, non fosse poi più autentico di Troy? E se il comportamento di tutti gli uomini non fosse altro che imitazione reciproca? Ancora una volta, anche se in modo diverso, ebbe la sensazione che gli uomini non fossero altro che dei bambini.”
Se gli avi che troneggiano nei ritratti della grande sala da pranzo richiamano duelli e battaglie per conquistare la terra, e il ricordo della guerra di secessione riecheggia nelle canzoncine cantate dalle vecchie zie, la nuova generazione di Fairchild può scambiare l’eroismo con la pura provocazione di chi si attarda troppo sui binari del treno rischiando di esserne investito, come accade a George Fairchild. Quest’episodio narrato diverse volte e da diversi punti di vista è al cuore del romanzo, almeno quanto il matrimonio fra Dabney e un sottoposto della sua famiglia, a segnare il tramonto di un’epoca e la fallacia dei suoi valori.
(la Lettura, 4 luglio 2020)