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Francesca Ramsay, “Toccami. Viaggio alla ricerca della realtà nel XXI secolo”

Recensione al libro: Francesca Ramsay, Toccami. Viaggio alla ricerca della realtà nel XXI secolo, Blu Atlantide 2024

Francesca Ramsay è una giovane storica dell’arte britannica, Toccami. Viaggio alla ricerca della realtà nel XXI secolo è il suo primo titolo a venir tradotto in Italia, e si tratta di libro non facile dacatalogare: non è un saggio, anche se presenta ampi brani che hanno il tenore del personal essay, non è un romanzo sebbene a tratti la narrazione prenda il netto sopravvento, di sicuro è un testo con una forte carica energetica perché l’autrice mette in campo tutte le conoscenze di cui dispone e i più svariati dispositivi narrativi, dal dialogo all’appunto lirico, per cercare di definire cosa sia la realtà e perché tanto ci sfugga, anche quando pensiamo di esserne circondati.

Punto di partenza è uno stato di disagio psichico che l’autrice dichiara di aver provato molto spesso: la dissociazione, definita sia come depersonalizzazione ossia distacco dal sé, sia come derealizzazione ossia distacco dal mondo. A pensarci bene ciascuno di noi ha provato entrambi questi stati; quando non si riesce a coincidere con la propria identità, a sentirsi presenti in ciò che si fa e si dice, e quando il mondo esterno ci appare del tutto avulso, remoto. Non di rado le due esperienze si producono insieme.

Ramsay, richiamando molte letture sulle neuroscienze, ritiene che la dissociazione sia una modalità del cervello umano per rispondere a un eccesso di stimoli negativi: ansia, stress, paura. Separando queste emozioni dalla mente e lasciandole in gestione al solo corpo, proteggiamo la capacità mentali di reazione ma, se il meccanismo diventa cronico, c’è il rischio di vedere svanire il contatto con la realtà materiale di cui siamo composti e di cui è composto il mondo. Rischio che oggi è incrementato dal fatto che tramite i nuovi media siamo bombardati di stimoli visivi e sonori, di notizie e informazioni che entrano di continuo nel nostro orizzonte percettivo come una pioggia di meteore. Molte di queste informazioni non ci riguardano, ma allertano comunque il sistema nervoso e producono un carico insostenibile, rispetto al quale la risposta è ancora quella dell’uomo primitivo che è noi, predato in un mondo ostile. Un esempio evidente è la perdita di sonno che affligge milioni di persone, così descritta da Ramsay: “Restiamo a letto a fissare i fari delle automobili che tracciano scie luminose sul soffitto, con il cervello all’erta, in attesa di un predatore che si è estinto diecimila anni fa.” 

Oggi, almeno nei contesti urbani, non solo siamo più preda di feroci belve ma quel genere di esperienza, come in generale ogni forma di scambio sensoriale e conoscitivo con il mondo ci è precluso dal fatto di passare una quantità smodata di tempo davanti a uno schermo: surrogato di esperienze che mai faremo, luogo in cui un avatar si muove e ci rappresenta, mentre affondiamo nell’anestesia di un divano. Se fino a qui le argomentazione di Ramsay sono in linea con quelle di altri autori, Olivia Laing e Byung-Chul Han ad esempio, che si sono concentrati sulla peculiarità della condizione contemporanea in relazione all’uso dei media, alle forme depressive, alla perdita di agency politica, è viceversa nel percorso di recupero della realtà che la scrittrice si rivela più originale. Cosa infatti ci tocca, o meglio ci pizzica – come suggerisce il titolo in inglese del libro Pinch me – al punto da risvegliare l’attenzione, il gusto e la sfida di essere viventi? Le opere d’arte costituiscono per Ramsay un canale privilegiato, perché a partire dal fatto che sono dichiaratamente rappresentazione di qualcosa, ci obbligano a vedere quella cosa, a notarla e a osservarla, al contempo ci forniscono una maggiore consapevolezza dei processi cognitivi in atto perché ogni opera d’arte non è mai la mera riproduzione di qualcosa che da qualche parte esiste nella realtà, ma una sua interpretazione, una sua restituzione filtrata dalla sensibilità, dal gusto, dalla storia di chi l’ha creata. Davanti a una crocifissione dipinta dal Beato Angelico nel convento di San Marco a Firenze, l’autrice dice di aver percepito il sangue e la sofferenza della Passione come la poteva percepire un monaco medievale per cui quel dipinto era la compagnia quotidiana. L’arte quindi non solo come esperienza estetica che scuote i sensi, ma come tramite di relazione con la storia, con il tempo, con altre vite che per sintonia o contrasto acuiscono la percezione della nostra. Un primo tassello di questa ricerca della realtà evidenzia la parola relazione: per sentirsi immersi nella realtà occorre essere all’interno di una rete di relazioni. Ma in questo viaggio, che per certi aspetti assomiglia a un iter iniziatico, Ramsay si concede di sperimentare situazioni ben più estreme che la contemplazione artistica: sedute di Bondage, sessioni di deprivazione sensoriale, camminate sfinenti in mezzo ai boschi, nuotate in acque gelide, assunzione di funghi allucinogeni, fino a scoprire che il sé, o meglio l’io alla costruzione del quale dedichiamo così tante energie, è una zavorra rispetto all’essere in relazione, all’avvertire la vita, che è sempre singola, è anche straordinariamente connessa a tutte le altre forme viventi. Il tatto, fin da Aristotele il più certo dei sensi, diventa per Ramsay una modalità sovraestesa per intendere la connessione non solo attraverso l’epidermide, ma anche attraverso la vista se è vero come affermava il filosofo Mearlau-Ponty che guardare è palpare la realtà attraverso gli occhi, e l’udito che viene toccato dalle onde sonore. Per riacquistare la sensazione di essere vivi, presenti e immersi nella realtà – conclude l’autrice – dobbiamo fare esattamente il contrario di quello che da più parti ci è stato ci è stato inculcato, cercare noi stessi. La ricerca di sé è un business da quattro miliardi e mezzo di dollari, osserva con arguzia l’autrice, ma perché siamo così tanti a non averlo trovato? Forse perché il sé è molteplice e fragile e vive, per l’appunto di relazioni, di contatto.

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