Salta al contenuto

Intervista a Michela Marzano

Articolo: Intervista a Michela Marzano, autrice del libro Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa (Rizzoli 2023), Sette, 4 ottobre 2023

“Quando parliamo abbiamo paura/ che le nostre parole non verranno udite/ o benaccolte/ ma quando stiamo zitte/ anche allora abbiamo paura perciò è meglio parlare/ricordando/ che non era previsto che sopravvivessimo”.

Vorrei iniziare da questa citazione di Audre Lorde che lei mette in esergo a uno dei capitoli del suo nuovo romanzo Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa. È sempre difficile per una donna parlare della violenza che ha subito, perché?

Quando si parla delle violenze sessuali, non si parla solo di violenza fisica, delle ferite e dei lividi che segnano (talvolta permanentemente) il corpo (e la vita) di una donna, ma anche di quella violenza subdola e feroce che annienta l’identità, che umilia e cancella, che lascia senza parola, appunto, perché nessuna parola sembra essere in grado di nominare ciò che si è attraversato. Per non parlare poi della vergogna e dei sensi di colpa che, spesso, paralizzano le vittime. Come trovare le parole per dire ciò che si è vissuto quando si immagina di essere in parte responsabili e ci si accusa di non essere state capaci di capire o di prevenire? Come raccontare quando si pensa che, forse, alle altre non sarebbe accaduto e che, se a noi è successo, è perché non siamo state in grado di farci rispettare?

Lei insegna filosofia morale all’università di Parigi, è quindi abituata a incarnare riflessioni etiche nella vita quotidiana. Perché ha scelto la forma del romanzo per parlare di stupro e consenso?

Sul tema del consenso lavoro da oltre vent’anni, soprattutto sui rapporti tra consenso, autonomia e libertà. Ma per tanto tempo ho evitato di affrontare direttamente la questione degli stupri e delle molestie sessuali: ogni volta che provavo, avevo la sensazione di non essere capace di trovare la tonalità giusta. Poi, un giorno, è arrivata Anna, la protagonista del mio romanzo, e con lei il suono delle sue parole: frasi, dubbi, interrogativi, silenzi. È stato come se, all’improvviso, tutto il materiale che avevo via via accumulato riuscisse a coagularsi attorno a questo personaggio. È Anna che si è imposta, e che mi ha (quasi) costretto a raccontare la sua storia. Attraverso la sua voce, che incrocia poi anche quella di altre persone, anche molto più giovani di lei, ho cercato di raccontare la storia di tante donne, compresa la mia, che hanno talvolta ceduto, senza mai davvero consentire; che si sono sentite in colpa, senza mai essere responsabili; che per anni hanno fatto fatica a parlare e a raccontare il proprio dolore, senza mai sospettare che fosse così diffuso. 

Anna non ha subito forme di violenza eclatanti, bensì tanti episodi in cui, come moltissime donne, si è sentita forzata e non ha saputo dire di no. Perché le donne si trovano spesso in questa zona grigia?

Perché viviamo ancora in una società in cui chi detiene il potere pensa che sia legittimo abusarne, e sono tanti i professori, i caporedattori, il capufficio, i produttori, gli agenti e via di seguito che approfittano dell’asimmetria strutturale che caratterizza alcune relazioni umane per imporsi, ricattare e strappare ciò che vogliono. C’è la paura di perdere il lavoro o un’opportunità; c’è il terrore di non essere all’altezza; non c’è ancora una piena consapevolezza, da parte di molte donne, del proprio valore e della propria libertà. E poi, talvolta, c’è anche l’eco di un’educazione che le spinge a non voler scontentare l’altro, a non volerlo imbarazzare o umiliare con un rifiuto, anche se è lui che, calpestando il nostro consenso, ci sta cancellando.

La definizione giuridica di consenso copre e tutela le donne rispetto a rapporti sessuali non voluti, alle avances improprie, o c’è qualcosa che sfugge alla legislazione?

La nostra legge è un po’ come una rete a maglie troppo larghe. C’è da provare l’uso della violenza; c’è da dimostrare la minaccia o l’abuso di autorità; c’è, insomma, il solito discorso secondo cui se non hai lividi o non sanguini o non sei depressa o non ti ribelli o non hai testimoni o non vai subito in ospedale, allora chissà! Dici la verità oppure menti? Sei stata stuprata oppure ti vuoi solo vendicare di un pover’uomo? Sei stata violentata oppure ti penti dopo esserci stata? In Italia, a differenza della Spagna, del Belgio o della Svizzera, solo per citare alcuni esempi, non c’è scritto da nessuna parte che il sesso senza consenso è stupro. Quand’è che una donna potrà sentirsi protetta se dice “no”, anche se lo dice piano, anche se lo sussurra, anche se non urla e non usa le mani? Quand’è che avremo la possibilità, per le donne come per gli uomini, di scegliere veramente quando (e se) fare l’amore senza che qualcuno venga a forzare la mano, tanto che vuoi, dicono “no”, ma poi ci stanno, fanno le timide, se la tirano, basta insistere un po’, dai, che male c’è?

Nel suo romanzo ci sono anche personaggi femminili che considerano il #Me too e tutti gli altri movimenti di denuncia che sono seguiti come un’esagerazione o peggio come una regressione rispetto alla cosiddetta liberazione sessuale della fine degli anni sessanta. Ma chi o che cosa è stato veramente liberato oppure no?

La liberazione sessuale è stata fondamentale per mettere fine all’idea che solo la procreazione legittimasse la sessualità, ma non ha permesso poi alle donne di essere davvero libere. Ha permesso a molti uomini di rimproverare alle donne che non cedevano immediatamente di essere ancora succubi di una morale piccoloborghese. Ha permesso ad alcune donne, in genere le più privilegiate, di non essere più prigioniere del ruolo “moglie-madre”. Ma cosa ne è stato di tutte le altre (la maggior parte)? La vera libertà è quella che permette non solo di consentire, ma anche di dire “no”, e di dirlo senza poi subire rappresaglie o sentirsi inadeguate. Cedere non significa consentire, anzi.

La protagonista del suo romanzo scopre di aver assorbito, si direbbe con il latte materno, una cultura dello stupro silenziosa quanto onnipresente. Rispecchia la sua esperienza, quella delle donne che conosce? E quale definizione darebbe di cultura dello stupro?

Rispecchia sia la mia esperienza, sia quella di molte amiche e colleghe. Mentre scrivevo questo romanzo, ne parlavo con alcune di loro, e ogni volta mi sono sentita dire: anche io ho ceduto, anche io non sono riuscita a essere sufficientemente assertiva, anche io sono stata molestata da bambina o da ragazza. Siamo ancora all’interno di una cultura dello stupro assai radicata, ossia all’interno di una società che, invece di decostruire quell’insieme di stereotipi che portano molti uomini a credere che “fare il maschio” significa imporre alle donne i propri desideri, non fa altro che rinforzarli. Come fa una ragazza a sentirsi al sicuro quando si sente dire che purtroppo gli stupratori esistono e che tocca a lei fare attenzione, tocca a lei evitare di mettersi in pericolo? Tanto più che la maggior parte degli abusi e delle violenze accadono in famiglia, a scuola, in università, in parrocchia, in tutti quei luoghi che dovrebbero essere protetti e che, invece, non lo sono affatto e non lo saranno finché si continuerà a ripetere che è anche colpa di una donna se viene stuprata o picchiata e non si agirà invece sulle cause vere di questi abusi e di queste molestie.

Alle ragazze si continua a chiedere di essere attraenti, piacevoli, seduttive; per le stesse ragioni le si giudica, condanna, insulta. Come si esce da questa impasse?

L’unico modo per uscire da quest’impasse è puntare sull’educazione. Nonostante i buoni propositi e le migliori intenzioni, si continua a trascurare la “p” più importante della famosa strategia indicata nella Convenzione di Istanbul quando, parlando del metodo da seguire per contrastare le violenze contro le donne, si indica in maniera chiara che ormai, se si vuole fare in modo che le cose cambino davvero, non basta più solo “punire” i colpevoli e “proteggere” le vittime. Si deve innanzitutto e prioritariamente “prevenire”. Ossia agire, appunto, a livello educativo e culturale per decostruire gli stereotipi che rappresentano il terreno fertile su cui poi germogliano e prosperano le violenze di genere. Il perpetuarsi inesorabile delle violenze contro le donne affonda le radici in quell’ostinata voglia di non vedere che i femminicidi e gli stupri sono il proseguimento delle violenze quotidiane; e che è sempre a partire dal momento in cui ci si permette di dire a una ragazzina “stai zitta” o “non capisci nulla” che le si impedisce di avere accesso alla consapevolezza del proprio valore, e quindi alla fiducia in sé stessa, e quindi a quelle risorse interne necessarie per rifiutare abusi, umiliazioni e molestie.

Il nuovo romanzo di Alessandra Sarchi
In libreria dal 28 febbraio
> Candidato al premio Strega 2024

Ascolta la seconda serie
dei podcast di VIVE!
Di Alessandra Sarchi,
con Federica Fracassi

Categorie