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Intervista a Selby Wynn Schwartz, autrice de “Le figlie di Saffo”, Garzanti 2024

Articolo: Intervista a Selby Wynn Schwartz, autrice de Le figlie di Saffo, Garzanti 2024 – La lettura, 2 marzo 2024

Le figlie di Saffo (titolo originale After Sappho) svetta in cima alla lista dei cento migliori libri americani del 2023 compilata dal “New York Times”. Un merito dovuto non solo al fatto che incrocia in una trama narrativa i destini di alcune donne eminenti a cavallo fra Otto e Novecento – da Anna Kulisciof a Sibilla Aleramo, da Elenora Duse a Lina Poletti, da Virginia Woolf a Isadora Duncan – ma perché lo fa con una lingua e uno stile vicini all’esattezza della poesia, alla verticalità emotiva e cognitiva proprie dello scrivere poesia. I versi di Saffo, o meglio i frammenti che ci sono pervenuti, ne dettano l’atmosfera, i temi, le occasioni. La prima domanda che ho rivolto all’autrice, Selby Wynn Schwartz, docente di letteratura comparata alla Stanford University della California, è: come nasce questo libro?

Duranti i miei anni di studio avevo incontrato le opere e la figura di Sibilla Aleramo attraverso la quale avevo poi incrociato Cordula, meglio nota come Lina Poletti, di quest’ultima allieva di Pascoli, dichiaratamente lesbica, donna affascinante, attivista coraggiosa, c’erano pochissime notizie almeno fino al libro di Alessandra Cenni, Gli occhi eroici. Sibilla Aleramo, Eleonora Duse, Cordula Poletti: una storia d’amore nell’Italia della Belle Epoque (Mursia 2011). Ho cominciato a fare ricerche e mi sono resa conto che intorno a loro, spesso intrecciate alle loro vite, c’erano quelle di molte altre donne che sembravano condividere la medesima ricerca di se stesse. Donne che a un certo punto in un sistema vetero patriarcale pieno di divieti, proibizioni e tabù si erano domandate, ciascuna a suo modo e guardando le une alle altre: cosa possiamo diventare? Cosa può essere una donna?

E Saffo come è entrata in gioco?

Saffo era una guida per loro; è d’altra parte l’unica donna dell’antichità di cui ci sia giunta la voce. Alcune come Renée Vivien tradussero i versi Saffo o impararono il greco per leggerla come Virginia Woolf, tutte volevano essere come lei: amate, riconosciute fra le loro simili, convinte che Saffo avesse trovato le parole per lo sguardo, il desiderio, la bellezza al femminile. Almeno fino alla prima guerra mondiale il mito della tessitrice di viole di Lesbo venne coltivato, poi in un certo senso l’idillio si ruppe: le donne capirono che non avrebbero potuto essere come Saffo e cominciarono a domandarsi viceversa come sarebbe stata Saffo nella contemporaneità. Il libro finisce nel 1928, quando esce Orlando di Woolf, una creatura che attraversa le epoche i generi.

Per quanto riguarda poi lo stile del mio libro, lo stato frammentario dell’opera di Saffo e la magnifica traduzione in inglese e l’interpretazione che ne ha fatto la poetessa canadese Anne Carson mi hanno molto influenzato nel disporre e intrecciare frammenti di biografie anziché nel costruire un romanzo con uno svolgimento lineare.

La studiosa Julia Kristeva ha più volte ribadito che considerata la struttura sociale, culturale e linguistica in cui viviamo come frutto del dominio maschile una donna si definisce più per ciò che non è piuttosto che per ciò che è. Viceversa nel suo libro sembra che Saffo offra le parole alle donne per dirsi. È così?

Saffo ha conosciuto la gioia dell’essere donna in mezzo ad altre donne e l’ha cantata in versi. “Poiché io dico che qualcuno si ricorderà di noi” recita uno dei suoi frammenti. Nel momento in cui le donne prendevano coscienza della loro condizione subalterna e richiedevano i diritti più elementari, fra cui il voto alle elezioni politiche, è normale che mitizzassero questa figura e si rivolgessero alle sue parole per darsi un’identità e anche immaginare un mondo diverso.

Infatti gli uomini quasi scompaiono dal suo libro, mentre sono ricordate come precise scansioni temporali le leggi del codice napoleonico, del regno d’Italia, e del fascismo che rendono ancora più intollerabile la condizione femminile. Perché ha voluto far sparire gli uomini?

Quasi tutte le donne di cui racconto frammenti di vita hanno subito uno stupro, come Sibilla Aleramo, una gravidanza non riconosciuta dal padre del bambino, Eleonora Duse, il pubblico disprezzo per comportamenti difformi rispetto alle convenzioni sociali, la repressione per aver chiesto dei diritti fondamentali come Anna Kulisciof. Volevo che fosse evidente la struttura di leggi che ha permesso tutto ciò e al tempo stesso volevo indagare lo spazio di libertà che ciascuna di loro era riuscita a ricavarsi lontano dagli uomini. Lina Poletti, ad esempio, sposa l’amico bibliotecario Santi Muratori, perché le serve lo status da sposata per potersi muovere e fare ciò che vuole fare, come una spedizione archeologica in Grecia. Ma è un matrimonio fittizio di cui entrambi sono consapevoli, Santi Muratori vuole con quell’atto aiutare l’amica di infanzia, la studiosa che ammira e stima, penalizzata solo per il fatto di essere donna.

Ha anche eliminato la presenza di Gabriele D’annunzio dalla vita di Eleonora Duse, un azzardo?

Dal punto di vista storico, cioè se avessi scritto un libro storico, è una cosa che non avrei dovuto fare. Ma avendo scritto un’opera di immaginazione, nel senso che ho provato anche a ricostruire l’immaginario di quelle donne, non ne ho sentito la mancanza. Mi interessava di più il rapporto che Duse aveva avuto con Lina Poletti e Sibilla Aleramo, con Giacinta Pezzana l’attrice più anziana che ne esalta il talento e l’aiuta a coprire la sua prima, illegittima, gravidanza. Si è già scritto tanto sul rapporto Duse e D’Annunzio e io, non solo non avevo nulla da aggiungere, ma volevo anche sottrarmi ai cliché così invalsi nel descrivere la loro relazione. 

Nel suo libro si incrociano solo i destini di donne privilegiate per censo, istruzione, e in quasi tutti i casi per la scelta di una vita artistica che consentiva molte cose precluse alle donne comuni, e le altre?

In effetti ho romanzato le biografie di donne affini fra di loro; in alcuni casi essere nello stesso luogo nello stesso momento ha determinato la piega che ha preso la loro esistenza, ad esempio nel caso di Rina Faccio che ci ha messo un certo tempo, e svariati incontri importanti, per diventare la scrittrice Sibilla Aleramo. Ho però anche voluto dedicare un intero capitolo – cosa che non ho fatto con nessuna altra – a Berthe Cleyrergue – che non fu artista, attrice o scrittrice, ma per gran parte della sua vita cameriera e cuoca di Nathalie Barney. Berthe era una ragazza del popolo intelligente e capace, come si evince dalle memorie che lasciò su quanto aveva vissuto e osservato nello scintillante circolo femminile di intellettuali che si riuniva intorno alla sua padrona, la scrittrice americana, residente a Parigi, Nathalie Barney.

Torniamo alla struttura corale del suo libro: com’è nata?

Credo che nella scelta di narrare attraverso una prima persona plurale, un “noi” che di volta in volta osserva e partecipa alle vicende di ciascuna donna, ci sia la suggestione del coro delle tragedie greche che ha una funzione di accompagnamento e di riflessione su quanto avviene in scena. Il coro antico funziona un po’ da tramite fra le vicende potenti e i sentimenti assoluti dei protagonisti, uomini e donne, e quelli degli spettatori.

Allo stesso tempo il “noi” mi si è naturalmente imposto come il modo migliore per rendere la storia millenaria delle donne alla ricerca della possibilità di diventare se stesse al di fuori dei ruoli loro imposti di madre, moglie e figlia. Attorno al rapporto e all’intimità fra donne c’è sempre stata molta ambiguità, un’ambiguità che da una parte le ha protette – la repressione contro l’omosessualità maschile è stata molto più feroce – dall’altra le ha rese trascurabili.

E oggi esiste un “noi” al femminile in cui riconoscersi?

Credo che ogni donna abbia il diritto sacrosanto di essere ciò che vuole essere, ciascuna nella propria diversità, ma credo anche che la solidarietà fra donne e la possibilità di lottare insieme per l’equità sociale siano una forza, forse l’unico modo per cambiare davvero il mondo. Per questo ammiro molto il movimento italiano “Non una di meno” che mi pare un collettivo impegnato a difendere i diritti di tutte/i.

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