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Lettera a mia figlia

Articolo: Lettera a mia figlia, La lettura, 3 dicembre 2023

Figlia mia,

io so che ti senti forte, libera e capace di percorrere il mondo alla ricerca di ciò che ti farà crescere e diventare la persona che vuoi diventare. Lo so perché rivedo in te e nelle tue amiche la stessa gioiosa sfida, la stessa energia che avevo alla vostra età. È una visione che mi tiene col fiato sospeso come si sta davanti a un tuffatore che stia per buttarsi dai dieci metri della piattaforma.

Eppure ciò non mi ha impedito, non mi impedisce tuttora, di preoccuparmi quando so che sei fuori a ore tarde (fatti sempre accompagnare a casa), quando mi dici che un ex-moroso vuole rivederti (meglio in luoghi pubblici, dove ci sia altra gente), quando mi riveli di aver avuto l’impressione di essere seguita e ti sei rifugiata in un negozio (hai fatto bene), e soprattutto quando mi racconti che alcune delle tue amiche hanno fidanzati che le obbligano a vestirsi in un certo modo: niente leggins o minigonne, solo felpe che coprano il fondoschiena, niente costumi sgambati, scenate di gelosia continue seguite da gesti roboanti come mazzi di rose e inviti a cena (ma, tu, uno così, lo capisci che è un manipolatore e ti toglie la libertà?)

Sì mamma, me lo hai già ripetuto mille volte. Lo so, mi rispondi.

Eppure continua ad accadere a un numero spropositato di donne, è accaduto a una tua coetanea, una ragazza d’oro come te, come tante, lontanissima dall’idea di fare quella fine, di morire accoltellata dall’ex fidanzato.

E io mi sento quasi meschina con i miei consigli di prudenza spicciola, con queste avvertenze ispirate dalla paura di madre che dopo averti insegnato il valore dell’autodeterminazione, il diritto e il piacere impagabile della libertà, la legittima pretesa della parità, si rende anche conto di aver disegnato un mondo ideale, e che la realtà è ben diversa. E con la realtà noi dobbiamo avere a che fare, una realtà fatta di migliaia di occasioni in cui il demone della supremazia maschile può manifestarsi perché è profondamente radicato in ogni aspetto del nostro vivere, a partire dalla lingua che usiamo dove tutte le peggiori offese sono insulti alla sessualità femminile (allora, tanto per cominciare, d’ora in poi usiamo stronzo, non figlio di puttana e simili) fino ad arrivare alle discriminazioni sul lavoro e alla disparità salariale.

Da te ho appreso che tu e tutte le tue amiche avete subito un qualche episodio di molestia, catcalling, apprezzamenti fisici non richiesti, una mano che si allungava senza permesso, un “dai che ti piace” quando invece proprio non vi piaceva. E io che credevo che questo repertorio fosse stato archiviato con la mia generazione, coi malintesi di una liberazione sessuale che aveva ancora una volta favorito i maschi e messo le femmine nella ambigua posizione di passare per bigotte o represse se non cedevano alle avances di chiunque.

Da te ho imparato pure che la tua generazione già a tredici anni ha visto fiumi di pornografia in rete. “E quello non è il vero sesso. È violenza e prevaricazione dei maschi” mi dici. Meno male che l’hai capito da sola, ma intanto penso: dove eravamo, noi genitori, mentre i nostri figli, maschi e femmine, costruivano la loro diseducazione sessuale in rete? Mentre venivano plasmati da un’idea di sesso come performance, falsissima, visto che sono gli stessi attori e attrici del porno a rivelare di dover assumere analgesici per prodursi in quelle scene? Perché non siamo stati capaci non di dico di insegnare, che queste cose forse non si insegnano, ma di suggerire che il sesso è relazione con l’altro, scoperta, gioco, una cosa serissima e delicata al tempo stesso?

Vorrei che i parlamentari che si oppongono all’educazione sessuale nelle scuole leggessero queste righe, e facessero anche loro i conti con la realtà che è complessa e contraddittoria, ma non è negandola che offriremo alle nuove generazioni maggiori strumenti di scelta e valutazione.

Sempre grazie a te, ho capito che oggi è più raro, ma non ancora sparito, il professore all’università che ti solleva lo spallino del reggiseno, mentre tu stai recitando un esametro di Virgilio (facendoti sentire sporca, vergognosa, fuori posto), viceversa con una certa frequenza hai a che fare con un fidanzato un po’ insicuro, un po’ fragile, un po’ ossessivo che prima ti controlla il telefono, poi ti chiede di non uscire se non con lui, infine ti trascina nel più bieco dei ricatti, se mi molli mi ammazzo, che diventa facilmente: se mi molli ti ammazzo. Perché dietro la virilità costruita intorno alla forza, alla competizione, alla sopraffazione, quella stessa che porta alle guerre deprecate dalle donne di tutti i tempi – ricordi Lisistrata di Aristofane e le risate che ci siamo fatte sullo sciopero del sesso? – c’è un’enorme fragilità maschile, e la tua generazione ne sta facendo l’esperienza più diretta. Non voglio giustificare quell’insicurezza, credo invece che ai genitori spetti una buona dose di responsabilità: educare i figli a riconoscere le proprie debolezze è cosa ben diversa dallo scusare sempre e comunque. Ogni parola, ogni gesto, ogni pensiero porta delle conseguenze. Parlare della propria vulnerabilità è ben diverso dall’agirla, dall’usarla per avere potere sull’altro o per autoassolversi dalle proprie mancanze.

Ma chi insegna ai giovani ad attraversare il fallimento senza farsi spaventare, senza rigettarne la colpa su qualcun altro, e ai maschi in particolare a non rigettarla su una donna? La nostra cultura ha un grande vuoto su questo punto come sull’idea di forza, che dovrebbe cambiare in modo radicale: la vera forza è di un altro genere rispetto a quella muscolare, a quella distruttiva che vediamo in atto tutti i giorni.

Viviamo in un tempo che deresponsabilizza chiunque e al tempo stesso ne fa una vittima alla prima occasione. Ma tu non vuoi essere una vittima, nessuna di voi ragazze là fuori, donne di ogni età, vuole essere una vittima. La reazione di Elena Cecchettin alla notizia della morte della sorella, ha spazzato via qualsiasi indulgenza verso il vittimismo, verso la disponibilità a oltranza delle donne a scusare o a riportare a un quadro di eccezionalità i femminicidi e la violenza.

Questa è la tua forza, la vostra forza. La capacità di porsi in un confronto con l’altro sesso che non vi veda né crocerossine né vittime. Mostratela al mondo, non fatevela sottrarre, usatela per ridisegnare la vita di relazione, la vita delle comunità umane. L’emancipazione femminile è l’unica rivoluzione riuscita del ‘900, diceva lo storico Hobsbawm. Ma non è del tutto compiuta, c’è ancora molto lavoro da fare, figlia mia.

mamma

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