Recensione al libro: Emilia Bersabea Cirillo, Non smetto di avere freddo, Iguana editrice, 2016
Una lettura impegnativa ha accompagnato la mia estate: Riconoscere è un dio. Scene e temi del riconoscimento nella letteratura, di Piero Boitani (Einaudi 2014).
L’autore individua nel tema del riconoscimento un modello portante e una chiave per leggere moltissima della letteratura mondiale: da Omero a Proust, dalla Bibbia a Thomas Mann riconoscere significa soprattutto accedere a un grado di conoscenza superiore, togliersi un velo da davanti agli occhi, far procedere la storia, e dunque l’attenzione del lettore, verso una dimensione ulteriore.
Mentre Boitani articolava l’analisi di molti classici costellati nei punti salienti di scene di riconoscimento, io rivedevo alla luce di questo schema tanto fruttuoso – perché legato alla vocazione profonda del narrare, ossia provare empatia per l’altro, imparare e riconoscere nell’altro se stessi – numerosi romanzi contemporanei letti di recenti, fra cui il libro di Emilia Bersabea Cirillo: Non smetto di aver freddo, pubblicato da poco da L’iguana editrice, un coraggioso progetto tutto al femminile guidato da Chiara Turozzi.
Al centro di questa storia molto bella di due donne, Angela e Dorina, cresciute da bambine in una realtà difficile come quella di un orfanotrofio del Sud Italia, diventate adulte con la fame dell’abbandono addosso, fino a un ritrovamento che tale realmente non è, poiché a dividerle ci sono, non solo le vite diverse, ma le mura e i cancelli di un carcere, c’è una sequenza di riconoscimento che passa attraverso il cibo: il riso in bianco con verdure che ogni giorno Dorina cucina per Angela, detenuta stramba, esigente, completamente isolata. L’una ha perso le tracce dell’altra e ignorano le reciproche sorti, ma per il tramite del cibo, che è veicolo di cura, di affetto e di attenzione, Angela e Dorina si ritrovano e riconoscono. Dorina comprende la disperazione di Angela, in lei vede la versione più estrema del proprio smarrimento e risorge l’antica alleanza contro la ferocia del mondo, contro l’ingiustizia patita e contro la loro stessa inemendabile fragilità.
I chicchi di riso sono grani di nutrimento quotidiano, come gocce di un latte che da donna a donna, da amica sorella e madre scorrono, come se fosse di questa stessa ambigua e vitalissima sostanza che i rapporti femminili si alimentano nella loro essenza più vera, o più incoercibile, quegli stessi chicchi si trasformeranno, saranno perle di morte, perline bugiarde da ingoiare per terminare una vita che Angela non regge più, reclusa al mondo, e incapace al perdono di sé.
(Blog di Alessandra Sarchi 2013-2020)