Articolo: Un weekend postmoderno, trent’anni dopo, la Lettura, 24 ottobre 2020
Il 2020 accoglie un duplice anniversario per lo scrittore Pier Vittorio Tondelli: nel gennaio 1980 usciva Altri libertini, romanzo che lo avrebbe reso molto popolare nonostante la censura e un periodo di sequestro dal mercato; dieci anni dopo, nell’ottobre 1990, veniva pubblicato Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, raccolta di saggi che l’autore aveva scritto lungo quell’arco di tempo e che aveva poi ricomposto insieme al critico Fulvio Panzeri. È in questa decade che si consuma la densissima parabola esistenziale e intellettuale dello scrittore nato a Correggio nel 1955 e morto a Reggio Emilia nel 1991. Un tempo relativamente breve in cui erano usciti altri tre romanzi, Pao pao (1982) Rimini (1985) Camere separate (1989) e Pier Vittorio Tondelli da studente del DAMS di Bologna, allievo di Umberto Eco e Gianni Celati, era diventato uno degli autori italiani più tradotti all’estero e punto di riferimento per le nuove generazioni di scrittori lanciando il progetto “Under 25” con la casa editrice Transeuropa.
Nata e cresciuta, una quindicina d’anni dopo, a pochi chilometri di distanza dalla sua Correggio, avrei potuto incontrarlo; è uno di quei mancati incontri di cui mi rammarico, nel corso del tempo viceversa ho conosciuto molti che gli sono stati amici e soprattutto moltissimi suoi lettori, la cui varietà, per anagrafe, genere, provenienza geografica e sociale, è la riprova che pur essendo, fra le altre cose, un autore abile come pochi a far vivere il genius loci della sua terra, il suo pensiero e la sua prosa sono tutto fuorché circoscritti da limiti regionali o generazionali e questo perché i concetti di geografia, in senso topografico e culturale, e di generazione come espressione di un dato momento storico, sono centrali nella poetica tondelliana. Vediamolo proprio a partire da Altri libertini.
Il romanzo si compone di sei scenari come li ha definiti Panzeri, in cui una gioventù marginale, eterodossa, sessualmente promiscua, sbandata fra droghe e accidentati apprendistati nel mondo gay, sfodera un’esuberanza a tratti gioiosa e a tratti malinconica: è il ritratto del fermento giovanile della seconda metà degli anni ’70, culminato nel ’77 bolognese, il movimento universitario alleato per un tratto con quello operaio, almeno fino all’uccisione da parte delle forze dell’ordine dello studente Francesco Lorusso, l’occupazione di Radio Alice, i carri armati dell’esercito nelle vie di Bologna, e tutt’intorno una provincia che prende consapevolezza di sé e dei propri riti: lo sballo, le balere, diventate poi discoteche, il viaggio all’estero per evadere “le nebbie che rendono le vie e le piazze della città quinte metafisiche di un palcoscenico in cui si recita il copione tipico di ogni provincia: quello dell’attesa e del sogno”.
Attesa e sogno sono parole chiave per Tondelli, gli permettono di posare uno sguardo immedesimato ed empatico su personaggi sgangherati come Giusy, il tossico che bivacca al Posto Ristoro della stazione di Reggio Emilia, con cui si apre Altri libertini, o Vanina, la ragazza scesa dall’Appennino e imbottita di acidi per poi essere avviata alla prostituzione dalla banda dei “terroni” che gestisce lo spaccio nell’area ferroviaria, o le “Splash”, un gruppo di quattro sciamannate che praticano molta autocoscienza e altrettanta disinibizione sessuale condita da alcol e velleitarismi artistici. Tondelli non ne fa l’oggetto di curiosità antropologica, intessuta di desiderio o di idealizzazione come poteva essere per i ragazzi di vita di Pasolini, i suoi personaggi non vengono da un luogo migliore e perduto, come l’arcadia contadina pre-bellica o la borgata non ancora imborghesita, sono viceversa espressione di un mondo in cui distinzioni di classe sociale e codici si sono già ibridati; scelgono consapevolmente la marginalità e l’infrazione sognando in modo confuso libertà e mescolanza di usi e costumi, come i loro antenati settecenteschi cari a Tondelli, che sulla letteratura epistolare di quel secolo si era laureato. Di tale ibridazione la spia è innanzitutto linguistica: i personaggi di Tondelli usano una lingua meticcia, dove alto e basso si mescolano, dialetto e slang convivono, dove s’insinua il logorio delle parole prodotto dall’estensione al parlato dei tecnicismi psicoanalitici o giornalistici, insieme all’invadenza di una cultura pop davanti alla quale anche le pretese della controcultura si piegano. La lingua è il luogo in cui questi personaggi possono esistere e non fuori da essa, secondo la lezione che era già stata di Celati e che verrà fatta propria, in seguito, da altri scrittori emiliani come Paolo Nori, Ugo Cornia, Daniele Benati.
I personaggi di Tondelli hanno già tutti i vizi dell’io contemporaneo: narcisismo, autoreferenzialità, rinuncia. Basti pensare a come finisce l’avventura delle “Splash”, il cui quarto componente, la Benny, torna a essere Benedetto rinunciando alla propria omosessualità: “Abbiamo pagato troppo caro il prezzo per la ricerca di una nostra autenticità, che tutto quanto abbiamo fatto era giusto e lecito e sacrosanto perché lo si è voluto e questo basta a giustificare ogni azione, ma i tempi sono duri e la realtà del quotidiano anche e ci si ritrova sempre a far i conti con qualche superego malamente digerito; che è stata tutta un’illusione, che non siamo mai state tanto libere come ora che conosciamo il peso effettivo dei condizionamenti”.
Quella che può emergere semmai è la saggezza esistenziale del fallimento: “Al Posto Ristoro ci si dimentica piano piano di tutto perché la vita è davvero vita, cioè una porcheria dietro l’altra è come sbattere merda ogni giorno che poi ti dimentichi che fa schifo e ne diventi magari goloso” che Giusy enuncia con il ritmo e la sintassi di una canzone di Vasco Rossi.
Ma si diceva: il sogno. Tondelli restituisce tutta la vitalità di una provincia in cui il benessere economico si è tradotto in aspirazioni e mitologie, in cui l’antico policentrismo di marca rinascimentale delle corti lungo la via Emilia ha fatto sì che i movimenti più interessanti siano quelli che si producono dai margini: “Notte raminga e fuggitiva lanciata veloce lungo le strade d’Emilia a spolmonare quel che ho dentro, notte solitaria e vagabonda a pensierare in auto verso la prateria, lasciare che le storie riempiano la testa che così poi si riposa. (…) Correre allora, la macchina va dove vuole, svolta su e giù dalla via Emilia incontro alle colline e alle montagne oppure verso i fiumi e le bonifiche e i canneti. Poi tra Reggio e Parma lasciare andare il tiramento di testa e provare a indovinare il numero dei bar, compresi quelli all’interno delle discoteche o dei dancing all’aperto ora che è agosto e hanno alzato le verande per godersi meglio le zanzare e il puzzo della campagna grassa e concimata. Lungo la via Emilia ne incontro le indicazioni luminose e intermittenti, i parcheggi ampi e infine le strutture di cemento e neon violacei e spot arancioni e grandi fari allo iodio che si alzano dritti e oscillano avanti e indietro così che i coni di luce si intrecciano alti nel cielo e pare allora di stare a Broadway o nel Sunset Boulevard in una notte di quelle buone con dive magnati produttori e grandi miti”.
La provincia si trasforma in una grande macchina mitopoietica, perché se per l’alter-ego ventenne dell’autore raffigurato nel terzo scenario di Altri libertini “Correggio diventa tutta una morte civile ed erotica e intellettuale e desiderante”, è altrettanto vero che quelle stesse piazze di paese, quelle stesse discoteche e teatri e circoli ricreativi dove si consuma la sua educazione sentimentale collettiva – quante volte nel libro si dice noi, un noi generazionale, un noi affettivo – si prestano a diventare il teatro di osservazione privilegiato degli articoli e saggi che comporranno Un weekend postmoderno, libro fondamentale per capire gli anni ’80, nel loro misto di reflusso ideologico, rampantismo economico ed esplosione di un desiderio edonista non privo di grandi momenti creativi. Postmoderno perché, come spiega Tondelli in un’intervista, frutto della “simultaneità e compresenza degli stili e delle forme” che lui, scrittore tutto teso a rendere sulla pagina il sentimento del vissuto, capta con lucidità e tempismo. Basti pensare ai saggi sulla riviera romagnola “Rimini come Hollywood” osservata dal caleidoscopio del turismo non solo italiano ma europeo che vi si riversa, e ai paragoni che mentre mettono a fuoco la provincia allargano lo sguardo alle altre province di un’Europa non ancora unificata, dove a Bruxelles trovi “una città diplomatica e veloce” ma già assediata da “un terzomondo cencioso e disperato e commovente” a Berlino il mito del punk, le case occupate a Kreuzberg e, dopo il crollo del muro, e dei regimi comunisti dell’Est, una “nuova tensione politica e ideale nel segno dell’Europa”. Tondelli, anagraficamente appena un po’ più maturo dello studente che esordiva con Altri libertini, sviluppa una precoce coscienza della globalizzazione e del ruolo nevralgico del Mediterraneo e lo fa osservando i movimenti dei giovani: sono i grandi raduni rock a evidenziare “i non più rimandabili problemi ecologici del pianeta”, e sono i flussi migratori, di cui le capitali testimoniano già un processo irreversibile, a suonare l’allarme di politiche da ripensare per “sentirci legati agli altri”. Tondelli non riesce a considerare gli anni ottanta “esclusivamente come una megadiscoteca in cui tutti, ballano, ridono, bevono, si insultano, si spogliano, tirano mattina e magari cappottano con la BMW di papà, parlando al telefonino cellulare”, anche se sa benissimo che sono stati anche questo. Pochi altri come lui hanno saputo cogliere i trapassi storici e culturali di quegli anni scandagliandone i costumi: la cravatta nera, che Patti Smith porta nel ritratto in cui Robert Mapplethorpe la immortala per la copertina dell’album Horses, è vista come primo segno della riconciliazione con un indumento prima bandito dal disprezzo per le convenzioni, e reintegrato grazie alla new wave. Tondelli se ne riappropria “con un senso di fastidio per i molti anni sprecati nel rifiuto, nell’autoemarginazione, nel deridere ‘le sporche regole del gioco’ che in fondo erano solamente le regole della vita e della crescita” mentre “a forza di accusare gli altri e la società di personali e collettive paranoie, altro non si faceva che accelerare un processo autodistruttivo che sfociava solo in tossicodipendenze, pesissime e senza via d’uscita.” Gli anni ’80 furono anche per lo scrittore di Correggio il momento in cui Jimmy Sommerville poteva cantare sulle radio di tutto il mondo l’omofobia e la solitudine da cui erano colpiti i ragazzi gay, mentre il controaltare euforico e provocatore, Boy George, esibiva le sue mise androgine e trasformiste. Non è un caso che a fine di quel decennio Tondelli con Camere separate abbia scritto una delle storie d’amore più struggenti, fra due giovani uomini.
Cosa altro avrebbe scritto e cosa sarebbe diventato se fosse sopravvissuto all’Aids che lo stroncò il 16 dicembre 1991? È la domanda che tutti i suoi lettori si fanno. L’anno scorso ho partecipato alle giornate tondelliane che ogni anno vengono organizzate a Correggio e ho visitato il suo archivio custodito nel magnifico Palazzo dei Principi, dove si trova anche la biblioteca cittadina. Accanto ai suoi libri, ai faldoni di appunti e alle musicassette, la scrivania con la valigia che conteneva la macchina da scrivere (con incollati sopra gli adesivi del Super Skipass Dolomiti degli anni ’80) il computer, un Macintosh 128 K, e una stampante ad aghi. Tutto qui. Tondelli non ha avuto il tempo di lasciarci uno studio più arredato. Ma nel suo ultimo romanzo, Camere separate, si è autoritratto in posa da scrittore, in quello che possiamo considerare come un testamento spirituale: “Sul tavolino accanto al letto sono rimasti i libri che ha lasciato l’ultima volta e che riesce a leggere solo qui, nella sua stanza. Alcuni volumi di Antonio Delfini e di Silvio d’Arzo. Dal balcone della sua stanza lui può vedere i luoghi in cui sono nati, a qualche decina di chilometri. Solo in loro lui trova quei particolari aspetti di follia, noia, malinconia che solitamente non si attribuiscono al carattere della gente della sua terra. Ma lui è stanco delle descrizioni di un popolo esuberante, aperto, disponibile, cordiale, sensuale. A lui ora interessa la parte nascosta di questo carattere, quella che causa i suicidi, che crea gli alienati, i folli del villaggio. Solo in questi due scrittori, in modo diverso, lui trova descritta quella certa impenetrabilità del carattere emiliano, quella certa scostanza, quella bizzarria o lunaticità malinconica e assorta che ha conosciuto in suo padre. Apre un libro di Delfini e inizia a leggere: «Se noi avessimo mai il dono di cantare il pianto e il rancore, la disperazione e l’ostinata speranza, la previsione dell’amarezza e l’impossibile rinuncia all’amore disperso, in mezzo ai disastri del mondo e all’implacabile andare del tempo o dell’uomo che sia; noi vorremo dire che…» Immediatamente pensa che anche questa volta, così come da molto tempo ormai, si è messo a letto presto, la sera.”