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Yoga per tutti

ArticoloYoga per tutti, La lettura, 23 maggio 2021

Alla nascita ero cianotica. Uscita a fatica e dopo un travaglio troppo lungo rispetto al momento in cui si erano rotte le acque, avevo patito quella che in termini clinici viene chiamata anossia, vale a dire un’insufficienza di ossigeno. Un fenomeno pericoloso che, se si protrae anche solo qualche minuto in più, può causare danni irreversibili alle cellule nervose. Non venni fuori cerebrolesa, ma viola e rigida, tanto che l’ostetrica mi batté con colpi esperti e ripetuti su tutto il corpo e in particolare sulla schiena perché il sangue riprendesse una circolazione regolare. Questa è la prima immagine che ho di me stessa: contratta e senza respiro. Non proprio un bello spettacolo. Non si tratta di un mio ricordo, com’è ovvio, ma della memoria di mia madre ripetuta a parole fino a diventare aneddotica, forse anche per superare, da parte sua, un momento traumatico e deludente: impiegai un po’ a diventare una rosea bebé da esibire con orgoglio. Se di tutto questo non posso avere un ricordo mio, se non sepolto in strutture della mente troppo labili affinché fosse cristallizzato, la fame d’aria mi è rimasta, o meglio me la sono portata dietro per tantissimi anni. Spesso mi mancava l’aria, respiravo male, mi sentivo rimbombare dentro per la tachicardia. Visite e controlli specialistici risultavano sempre negativi, non c’era nessun difetto nella fisiologia dei polmoni o del cuore. Mi agitavo troppo o ero ansiosa – azzardava qualche medico – senza dirmi, però, come riuscire a spingere fuori l’aria dal diaframma e riprenderla dentro senza sentirmi strozzata. Questi sintomi passavano quando facevo danza o nuoto, il respiro diventava allora armonioso, fluiva dentro il corpo con ritmo e regolarità, ma ritornavano appena si presentava una situazione di stress: un compito in classe, un esame universitario, un conflitto di relazione o sul lavoro e partiva il singhiozzo, una lieve dispnea, il fiato corto.

In qualche modo l’aria che ingerivo mi sembrava troppo poca e quella che riuscivo a espellere insufficiente, c’era sempre un residuo, un palloncino, tra la cassa toracica e la gola, che non andava né su né giù. Ho fatto pace con questo problema quando ho iniziato a praticare yoga, dodici anni fa.

Fu un’amica che soffriva di sclerosi multipla, che quindi come me aveva problemi motori, a suggerirmi di frequentare il suo corso, dove si praticava lo yoga kundalini, un tipo di yoga incentrato sul riequilibrio energetico del corpo, sulla respirazione e la meditazione. Per noi occidentali abituati a una rigida distinzione fra corpo e mente, ma al tempo stesso nutriti, fin dall’antichità, di immagini di corpi ideali e performanti, lavorare sull’insieme di corpo-mente è un approccio non immediato.

Devo ammettere che all’inizio non ci capivo niente. Entravo in questa stanza coperta di tappeti sul pavimento e dove era d’obbligo – un obbligo non così tassativo – vestirsi di bianco e stare rigorosamente a piedi nudi. Dalla mia sedia a rotelle venivo traslata su uno di questi tappeti e cuscini, poi sotto la guida di una maestra dallo sguardo magnetico iniziavo a eseguire posizioni di mani, braccia, gambe, testa e collo che lei ci indicava. Non erano esercizi di ginnastica, ma direi piuttosto posture, venivano scanditi da forme di respirazione diversa, da mantra ossia versi in sanscrito recitati a voce alta e occhi chiusi, e talvolta accompagnati da musiche. La classe era composta da una decina di persone che a volte potevano essere anche venti o trenta, di tutte le età, e con i corpi più vari. C’era chi praticava kundalini da molti anni e sembrava avviato su un percorso ben definito di competenza e conoscenza – lo capivo da come adattavano a sé le sequenze di gesti, e da come mi davano suggerimenti quando con lo sguardo cercavo aiuto – e c’era chi, come me, non aveva ancora messo a fuoco il senso di quell’ora e un quarto di: occhi chiusi, estrema concentrazione mentale e fisica, respiro continuamente variato. Mi sentivo come la neofita di un percorso iniziatico che però non portava all’abbracciare una religione o una setta, ma di certo implicava l’adesione a principi e valori condivisi, a partire da un ascolto profondo di sé e dell’energia che ogni corpo racchiude e trasmette. D’altronde l’insegnante aveva scelto di proposito di non appesantire le lezioni con discorsi, diceva quanto bastava, ben sapendo che a parlare troppo si correva il rischio di fare della filosofia, mentre ciò che ho capito col tempo è che la pratica dello yoga è una forma concreta in sé di filosofia.

Mettetevi in una stanza con altre persone, che non avete scelto e nemmeno conoscete, ciascuna con il proprio vissuto, le proprie difficoltà psicologiche e fisiche, sotto la guida di un maestro cominciate a compiere movimenti che non vogliono essere atletici né esteticamente perfetti, come è richiesto invece da molte discipline tipo la danza o le arti marziali; piuttosto questi movimenti agiti insieme a un respiro che viene cadenzato, fanno sentire gli scricchiolii, le resistenze, le contratture del corpo fisico in relazione alla psiche. Ascoltate voi stessi e ascoltate gli altri farlo, ne ricaverete via via una forma di consapevolezza a partire dal bisogno di cura che ciascuno porta con sé, perché siamo tutti un po’ malandati, un po’ difettosi, un po’ disuniti nelle varie parti che ci compongono. Per qualcuno è il mal di schiena, per altri il fiato corto, per altri ancora l’emicrania o la gastrite; la gamma delle manifestazioni del malessere è molto vasta e lo yoga fa emergere i sintomi per quello che sono: segnali lanciati da un sistema complesso e composto da tanti strati qual è la nostra sostanza psicosomatica.

D’altra parte, la radice etimologica della parola yoga viene ricondotta dallo studioso rumeno di storia delle religioni, Mircea Eliade, e da molti altri con lui, al sanscrito yui che significa legare, congiungere (in latino iugum). Quindi lo yoga è la disciplina dell’unione fra corpo, mente e psiche, ma anche di una percezione del sé allargata, non più racchiusa nei confini angusti dell’io, ma estesa agli elementi e al creato, agli altri essere viventi.

Non sono arrivata a pensarlo dopo avere letto libri sull’argomento – e ce ne sono ormai tanti – ma attraverso la pratica. Piano piano mi accorgevo che cambiava il mio modo di respirare, continuavo ad avere episodi di fame d’aria e tachicardia, ma riuscivo a controllarli meglio e ritrovare più in fretta e con maggior facilità l’equilibrio. Anche la mia atavica insonnia è migliorata via via. Quando mi capita di svegliarmi nel cuore della notte, adesso, anziché vagare con la mente per ore, mi concentro sul respiro e ritrovo il sonno, la possibilità dell’abbandono. Il respiro: lo diamo per scontato, spesso non vi facciamo attenzione, eppure è il primo e fondamentale contatto che ci apre al mondo. Ci nutriamo innanzitutto di ossigeno. Il movimento stesso di inspirazione-espirazione è lo scambio primario con l’ambiente.

L’arrivo della pandemia da Covid-19 ha interrotto le classi dal vivo di molte discipline e sport, fra queste anche lo yoga. Per qualche mese mi sono sentita orfana, non solo della mia insegnante ma anche della condivisione con la classe. Si può fare yoga pure da soli, ma è diverso. Poi come è accaduto a molte altre attività, le piattaforme digitali in rete hanno permesso di trasferire dietro uno schermo anche questo insegnamento. All’inizio ero perplessa, nonostante avessi conosciuto dal vivo l’insegnante, un’ex-campionessa paralimpica di tennis da tavolo con una lunga esperienza di yoga, temevo che mettermi davanti a un computer sarebbe stato limitante. Invece è stato possibile ricominciare la pratica, ritrovare quel senso di comunità che si dà appuntamento in un giorno e in un’ora stabilita e, sebbene a distanza, ho sentito di nuovo la possibilità di esporre la mia fragilità a quella altrui, in uno spazio che non è più quello di una stanza comune ma di una schermata comune: l’insegnante al centro, gli altri partecipanti in riquadri più piccoli in alto. Ognuno nella propria camera, nella propria finestrella di mondo, ma al tempo stesso connessi, nel senso più letterale della parola. Non posso certo sostenere che sia la stessa cosa di prima, ma questo si potrebbe dire di una quantità di atti che sono stati cambiati dalla pandemia forse in maniera temporanea forse per sempre, tuttavia nella mia esperienza di lezioni on line non ho perso quello che ritengo essenziale dello yoga: la possibilità di entrare in profondità non tanto dentro di me – dentro di me ci sto anche troppo e non è sempre un posto soleggiato – ma dentro l’esserci. Coincidere in tutto e per tutto con il movimento che si compie, con il respiro che ti attraversa, senza quello scarto faticoso fra pensiero e azione che è spesso la nostra quotidianità. Tutto questo è possibile perché, pur venendo a mancare la presenza fisica, la voce dell’insegnante che fa da guida favorisce la concentrazione, crea uno spazio forse ancora più presente di quello materiale perché costruito dall’attenzione interiore. Ho riflettuto su questo effetto di immersione totale che mi danno le lezioni di yoga on line e il paragone imperfetto, ma spero efficace, che mi viene è quello con l’ascolto di una voce radiofonica che ci coinvolge e si imprime con intensità proprio perché tiene avvinto l’udito, senza scomodare o farsi distrarre dagli altri sensi.

Ovviamente ogni tanto, durante la pratica, apro gli occhi, più che altro per verificare che quello  che sto facendo sia abbastanza in linea con quello che fa l’insegnante, ma la vista non è preminente e questo è un altro aspetto interessante: è la voce a fare da guida, ossia la nostra espressione più personale e ineffabile, la cosa più vicina all’etere e al tempo stesso proveniente dalla cavità dei nostri organi interni.

Quando usciremo dalla pandemia – e il traguardo non sembra più così lontano – è possibile che molti dei corsi online vengano dismessi, spero non tutti. Penso infatti che lo yoga praticato a distanza potrebbe aiutare molte persone impossibilitate a muoversi perché in un letto d’ospedale o con altri problemi di mobilità. Ma il pensiero più rivoluzionario, che lo yoga mi suggerisce, è che dovrebbe essere usato, tra le altre cose, come tecnica di conciliazione: nelle aziende, nelle scuole, in tutti i luoghi dove la socialità crea frizione e conflitto, fare yoga insieme aiuterebbe a ridimensionare, a rispettare la debolezza altrui perché si rispetta la propria, e ad ammirare la forza altrui perché si percepisce la propria.

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