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Antonia Byatt, Pavone e rampicante

Recensione al libro: Antonia Byatt, Pavone e rampicante. Vita e arte di Mariano Fortuny e William Morris, Einaudi, 2017

Cosa lega Mariano Fortuny e William Morris? Apparentemente non molto, eccetto il fatto di aver prodotto entrambi, come parte di un’attività artistica e artigianale ben più estesa, stoffe decorate e ricamate con sontuosi motivi ornamentali divenuti famosi in tutto il mondo.

Mariano Fortuny (Granada 1871 – Venezia 1949) nasce in seno a una facoltosa famiglia di artisti; dopo la precoce morte del padre, la madre si trasferì con il figlio a Parigi frequentando il bel mondo dell’aristocrazia e dei collezionisti, poi nel 1889 si stabilirono a Venezia.

William Morris (Walthamstow 1834 – Hammersmith 1896) era figlio di borghesi che avevano fatto fortuna con la produzione dello stagno, era cresciuto nelle campagne boscose dell’Essex e dopo aver conosciuto Edvard Burne Jones e Philip Webb all’Università di Oxford, entrò in contatto con Dante Gabriele Rossetti e il giro della confraternita preraffaellita da lui fondata nel 1848.

Nel 1899 Mariano Fortuny acquistò Palazzo Pesaro Orfei, dove qualche anno dopo si sarebbe trasferita anche Henriette Negrin, conosciuta a Parigi. Si sposarono nel 1924, dopo più di vent’anni di felice convivenza e proficua collaborazione artistica e professionale.

William Morris prese in matrimonio, nel 1859, la figlia di uno stalliere che aveva posato come modella per Dante Gabriele Rossetti, la bella e ombrosa Jane Burden, tante volte ritratta dal pittore italo-inglese di cui fu a lungo l’amante; un matrimonio piuttosto infelice anche se non mancarono due figlie.

Fortuny si nutrì di un immaginario mediterraneo: per la decorazione e la fattura delle sue stoffe attingeva a motivi e stili della Grecia antica e dell’Oriente, reiventandoli e ricreandoli. Morris era legato alle saghe nordiche islandesi, studiava la natura – il rigoglio continuo di piante, fiori, animali – per poterli riprodurre con “ordine e immaginazione” nei propri manufatti. Fortuny visse sempre in mezzo ad aristocratici e fu un ammiratore incondizionato dell’opera wagneriana, per la quale studiò e realizzò apposite luci di scena.

Morris detestava Wagner, nell’ultima fase della sua vita aderì con convinzione al marxismo e al socialismo, non riuscendo mai a conciliare il fatto che gli oggetti che produceva avessero un costo elevato e non fossero alla portata di tutti.

Antonia Byatt è scrittrice e studiosa troppo raffinata e consapevole per non dichiarare, fin dalla prima pagina di Pavone e rampicante. Vita e arte di Mariano Fortuny e William Morris, uscito ora per Einaudi, come l’intreccio delle due biografie nasca dalla personalissima associazione sviluppata dopo una visita a Venezia. Il fluttuare acquamarino nei canali, unito all’oscurità degli interni di Palazzo Pesaro Orfei, in cui scintillano le luci mutevoli degli abiti di Fortuny, le aveva richiamato alla memoria il verde della campagna inglese intorno a Kelmescott Manor, abitazione e laboratorio di campagna di Morris. Al tempo stesso, con il senso della sovrapposizione di piani temporali, delle analogie e delle contrapposizioni che le riconosciamo fin dai suoi romanzi più famosi, come Possessione e Angeli e insetti, Byatt non rinuncia a ripercorrere l’ordito che tale associazione suggerisce nei suoi contrasti e affinità, per arrivare a una consapevolezza simile a quella dello storico greco Plutarco e delle sue Vite parallele. Dice infatti riguardo la tormentata vita coniugale di Morris e i molti cambi di sede della sua attività: “Non credo che sarei riuscita a chiarire questi pensieri e sensazioni se non fossi stata contemporaneamente impegnata a immaginare la vita domestica di Fortuny a Palazzo Pesaro Orfei.”

Byatt indaga il piacere tattile e visivo che sprigiona dall’arte di entrambi e cerca di ricollocarne l’origine nel contesto di contatti umani e professionali che ebbero. Fuori da qualsiasi mitologia del genio artistico isolato, Byatt riconosce la loro straordinaria forza di espansione estetica: entrambi seppero costruire un gusto riconoscibile e largamente apprezzato. In un momento in cui la produzione industriale stava per soppiantare quella artigianale, Morris e Fortuny fecero ricorso a tecniche di lavorazione della stoffa, di stampa e di tintura, desunte da trattati rinascimentali e antiche ricette. La preziosità e laboriosità di questo tipo di manifatture non impediva che entrambi mirassero a creare oggetti funzionali a un’idea di comfort e di benessere quotidiano, unendo l’utile al bello. Un concetto al centro della modernità e di quello che sarebbe poi diventato il design industriale. Le carte da parati, i chintz e le tende realizzate da Morris erano talmente moderne che sono tuttora in produzione, i vestiti di Fortuny, la famosa sciarpa “Knossos” e l’abito “Delphos”, vennero considerati così naturalmente eleganti e liberatori, rispetto all’armamentario di corsetti e sottogonne all’epoca in uso, che se ne appropriarono donne dello spettacolo, emblemi di seduzione ed emancipazione come Eleonora Duse e Isadora Duncan. La scrittrice e saggista americana Susan Sontag (1933-2004), una delle più acute osservatrici di come l’era tecnologica abbia inciso sulle nostre esistenze, si fece seppellire vestita con un abito di Mariano Fortuny.

Byatt individua un elemento unificante dell’attività e della vita di Fortuny e Morris nella loro devozione per il lavoro manuale, nel piacere di sviluppare un’abilità unica con l’esercizio dell’occhio e della mano. Fortuny depositò una grande quantità di brevetti relativi a supporti e meccanismi illuminotecnici per il teatro, alla stampa policroma di tessuti, alla plissettatura a raggiera. Morris secondo la sua più illustre biografa, Fiona MacCarthy, fu esperto “di calligrafia, cucina, modellatura su argilla, tintura, miniatura, pittura e disegno, fabbricazione della carta, incisione su pietra, ricamo e arazzo, tessitura, intaglio e incisione su legno”.

Byatt riconosce che molto della fortuna di entrambi si legò alla letteratura: per Fortuny fu la consacrazione di Proust, che nella Recherche trasformò i mantelli e le vestaglie cangianti con pavoni e fenici in metafore di morte e resurrezione, in metafore della scrittura stessa, come i mosaici e i capitelli veneziani popolati dai medesimi soggetti.

Per Morris la letteratura fu parte integrante dell’espressione del proprio talento: fu poeta, romanziere, saggista e traduttore con opere ripubblicate in diverse edizioni, fino all’ultima, un inedito in verità, il diario del viaggio in Islanda, pubblicato nel 2011 a cura di Lavina Greenlaw, con il titolo Questions of Travel. William Morris in Iceland.

Byatt però guarda oltre il filtro letterario, gli scrittori e la letteratura si concentrano invariabilmente su temi come l’amore e la morte, ma rinunciano a parlare di una cosa altrettanto presente e importante nella realtà umana: il lavoro. Fortuny e Morris furono viceversa febbrili e gioiosi lavoratori.

Sembra di avvertire qui un’eco del pensiero che il sociologo Richard Sennett ha formulato nel libro Homo Faber (2008), riportando l’accento non solo sulla manualità, ma sul sapere fare bene un lavoro come acquisizione di una vita intera, in contrapposizione ai miraggi della flessibilità contemporanea.

Byatt usa infine un aggettivo insolito per definire tanto gli studi sulla crescita arborea trasferiti su carta e stoffa da Morris, quanto le trasparenze e i simbolismi raffinati degli abiti di Fortuny: ai suoi occhi sono commoventi perché, in maniera diversa e più accostante rispetto alle opere d’arte uniche o monumentali, questi esemplari di artigianato artistico hanno trasmesso motivi e simboli desunti e reinventati a partire da tradizioni millenarie, immettendoli nella vita domestica. Testimoniano la volontà di riprodurre le forme organiche, fissarle in pattern visivi da portare addosso, da ammirare alle pareti, da foderare letti, cuscini e lampade. Per questo melagrane, pavoni e rampicanti assurgono a commoventi aneliti di un’eternità terrestre.

(Blog di Alessandra Sarchi 2013-2020)

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