Recensione al libro: Maylis de Kerangal, Canoe, Feltrinelli 2022
Ci sono otto canoe in questo nuovo libro di Maylis de Kerangal, distribuite per ogni racconto che compone la raccolta che ne porta il titolo.
Una è il ciondolo dorato appeso alla catenella dell’odontoiatra che prende le impronte dentali alla protagonista. Una è solo l’immagine con la quale due singolari sorelle hanno catalogato una voce che ritengono adatta al loro archivio di registrazioni letterarie. Un’altra appare come metafora di un viaggio placido sulle acque di un fiume che è l’esatto contrario di quanto sta avvenendo alla protagonista, alla spericolata guida di una vecchia mustang. Un’altra ancora viene commissionata in Ontario, Canada, per essere spedita in Francia e lì venire appesa come un totem sulla parete interna di un appartamento. L’ultima compare, di nuovo figurativamente, come la scia lasciata dalla cometa di Halley al suo passaggio in prossimità della terra nel 1986.
La ripetizione di questo oggetto non basterebbe di per sé a conferire unità e coerenza, due qualità importanti quando si parla di un insieme di narrazioni brevi, se l’autrice non avesse caricato estesamente, senza peraltro diventare mai didascalica, l’area semantica legata alla canoa, all’attraversamento, allo scorrere liquido dell’acqua, alla scia che lascia dietro di sé o, al contrario, alla direzione del viaggio. Protagoniste della narrazione sono tutte donne, molte di loro non hanno nemmeno un nome, accompagnate da un marito o da un padre – la scelta del ruolo in cui il maschile può declinarsi è solo familiare – oppure sole, collocate in situazioni di magnifico spaesamento. Sono rifrazioni dello stesso personaggio? Di un’unica voce colta in momenti diversi della vita, in circostanze spazio-temporali distanti?
Maylis de Kerangal ha dichiarato: “Donne di tutte le età, solitarie, sognatrici, volubili, ossessionate o marginali. Sono loro che occupano tutto lo spazio. Soprattutto ho voluto andare in cerca della mia voce tra loro, farla sentire nel modo migliore, trovare un ‘io’ più vicino”.
In effetti se la canoa è l’amuleto che racchiude la possibilità di un attraversamento – che si tratti dell’esame di maturità e del passaggio alla vita adulta o del trasferimento in un continente diverso da quello di provenienza o addirittura del bucare lo spazio cosmico da parte di un ufo – l’altro polo tematico intorno cui ruota la raccolta è quello della voce umana, intesa come forma indelebile e unica, almeno quanto l’iride degli occhi o l’impronta digitale, dell’identità di ogni individuo.
Eppure la voce non è, al pari dell’identità psichica, immutabile; al contrario è la modulazione corporea più soggetta a variazioni; molto più di muscoli, ossa, pelle e capelli che possono mutare consistenza, colore, peso e volume, ma niente come la voce mutata ci confonde, perché in essa vi è il deposito della memoria di chi siamo stati e la reazione continua all’ambiente in cui ci troviamo.
La giovane donna protagonista di Mustang, il racconto più lungo che si trova al centro di Canoe, raggiunge il marito ricercatore universitario in una cittadina piuttosto isolata del Colorado. Fatica ad abituarsi al nuovo paesaggio, alle sue usanze, alla lingua, all’improvvisa libertà di non fare niente e disporre del proprio tempo, una condizione inedita e mai sperimentata prima che risveglia in lei impensati sensi di colpa. Ma la misura esatta del proprio smarrimento esistenziale non le viene fornita tanto dalle sue peregrinazioni per la cittadina con il bambino piccolo al seguito, nel tentativo di stabilire nuove abitudini visive e relazionali – la casa con i cani che abbaiano, quella con altri bambini che giocano nel cortile, il vicino che si occupa del verde, conquiste effimere di un orizzonte di prossimità cui affezionarsi anche se per poco – quanto dalla percezione improvvisa, e però irrimediabile, di un cambiamento nella voce del marito. Si tratta di una tonalità diversa che subisce l’influenza dell’inglese in versione americana, ma non è solo una questione fonetica, o meglio il cambiamento fonetico implica un adattamento al luogo che la protagonista, a differenza del marito, non è in grado di compiere e che in un certo senso li allontana. Maylis de Kerangal qui, come anche nei racconti Un uccello leggero e Ontario, adombra con la maestria di uno stile sempre vicino alla sensorialità percettiva, il trauma più grande, quello della morte. Scopriamo infatti nel corso del racconto Mustang che la giovane donna che ne è protagonista ha perso un bambino, quando viveva in Francia, e quindi la ricostruzione di un’identità riguarda non solo l’adattarsi a un nuovo paese ma anche, più a fondo, l’elaborazione di un lutto.
Un uccello leggero mette in scena una figlia che cerca di persuadere il padre a togliere il messaggio registrato dalla madre sulla segreteria telefonica di casa, ora che la madre è morta da più di sei mesi: “La sua voce registrata è al presente per sempre, ma è un altro presente, un presente in cui la morte non ha avuto luogo, un presente che non coincide mai con quello della mia vita e questo mi fa impazzire, mi fa male.” Alla fine il padre si convincerà a cancellarlo, non prima che la figlia ne abbia fatto una copia sul cellulare di entrambi. Poche cose sono più evocative della voce, e struggenti quando la persona che la incarnava scompare. La tecnologia consente oggi di conservare la traccia fonetica che lasciamo, nell’atemporalità illusoria dei reperti d’archivio. D’altronde, a voler riflettere sull’organo di emissione della voce, evocato nella forma di una mandibola preistorica che l’odontoiatra mostra alla protagonista nel primo racconto, Bivacco, la gola e la bocca sono le cavità più grandi del corpo umano, sono e segnalano un vuoto, uno scavo, un’assenza.
Pertanto, al cuore della raccolta di Maylis de Kerengal si trova, ancora una volta, la perdita. La ritroviamo nel racconto Ontario dove, senza che la protagonista capisca le relazioni fra i personaggi che via via incontra a un’affollata convention a Toronto in Canada, si celebra il rituale dei morti, gettando fiori di papavero di carta nelle acque del lago.
È la morte lo spazio non detto da attraversare di questi racconti, che non hanno trame definite ma si aggregano piuttosto intorno ad atmosfere, ambientazioni, un’attitudine introspettiva che fa spazio al vuoto, a ciò che si è perduto, a ciò di cui rimane solo una traccia e talvolta nemmeno così decifrabile e certa, come le impronte sull’erba del supposto ufo nel racconto che chiude Canoe.