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Carola Barbero, Nuotare via

Recensione al libro: Carola Barbero, Nuotare via. Dalle vasche a perdifiato all’ultimo bagno di stagione, il Mulino 2024

Ogni sport ha la propria letteratura e si sa che gli adepti sono pronti a scorgere nella attività fisica prediletta molto di più che semplice movimento e coordinazione di muscoli. Prosa e poesia attingono da sempre all’esperienza dell’agone fisico, che si tratti della maratona e dei giochi atletici per gli antichi o del tennis, del ciclismo, del nuoto e del calcio che tante pagine hanno ispirato agli scrittori moderni e contemporanei.

A ben vedere chiunque pratichi uno sport con passione e continuità finisce per trovarvi molto di più che uno svago e un modo per stare in forma; trova la metafora stessa della propria vita. Cosa sarebbe Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani senza la cadenza del rimbalzo della pallina sulle racchette da tennis e quelle estenuanti partite a due o a quattro disputate fino al crepuscolo? Il tennis, nel romanzo, è la metafora della sfida amorosa fra la voce narrante e la sfuggente Micol, e della sfida persa per sempre con la Storia. Oppure pensiamo a quello straordinario racconto di John Cheever, The swimmer, (Il nuotatore) in cui il protagonista, in una luminosa domenica estiva, sfida se stesso ad attraversare a nuoto le 15 piscine della sua contea, per ritrovarsi via via sempre più sfinito, infreddolito e infine solo, senza più una casa e una famiglia; parabola di una vita deragliata e di una falsa coscienza.

Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ed è proprio a partire dall’idea che uno sport produca anche una particolare visione del mondo che Carola Barbero, filosofa del linguaggio all’università di Torino, ha scritto un pamphlet arguto e di piacevolissima lettura sul nuoto con molti rimandi alla letteratura, al cinema e alle arti visive.

Innanzitutto ci si potrebbe domandare, come ha fatto Bonnie Tsui in un libro pubblicato nel 2023 da 66thand2nd che si affianca a quello di Barbero, per temi e impostazione, Perché nuotiamo?

La risposta più semplice ma anche più definitiva, alla quale in maniera diversa giungono entrambe le autrici, è che nuotiamo per salvarci, non solo dalle acque pericolose e imprevedibili di un mare, di un fiume, di un lago in cui potremmo avventurarci, ma anche da noi stessi dalla trappola di alienazione in cui con una certa inevitabilità ogni essere umano cade. C’è chi va a correre e chi nuota, in entrambi i casi al beneficio fisico subentra presto qualcosa d’altro, perché allenare il corpo serve a salvarsi dalla malattia, dalla tristezza, da un senso di finitudine che può incombere sulla vita di chiunque. E allora tanto vale misurarlo il limite, ogni giorno con se stessi, con il proprio fiato, la propria resistenza. Ma quando si ha a che fare con l’acqua si aggiunge una dimensione ulteriore. I famosi bagni freddi consigliati a chi soffriva di depressione hanno una loro ragione d’essere profonda: non è solo lo shock termico a scuotere il corpo, ma sono le connessioni neurologiche a venirne stimolate a far riprendere spinta. Come Valentina Fortichiari, un’altra autrice italiana che ha dedicato diverse opere al nuoto, a Carola Barbero interessa soprattutto il nuoto praticato con assiduità, con metodo e rigore, il nuoto che si fa in piscina, come una religione o come una forma di introspezione e cura di sé.

“Si nuota sempre in altro da sé, anche se sempre a partire da sé: dal respiro trattenuto, dai piedi saldi, dal baricentro sul blocco di partenza, dalle mani agganciate per garantire lo sbilanciamento che precede la spinta di gambe indispensabile al tuffo che segue” scrive Barbero, riferendo l’esperienza del momento in cui ci si tuffa come quella di uno stacco fra l’essere bipedi e terrestri e il ritrovarsi immersi nell’elemento liquido che toglie peso al corpo lo rende soggetto a reazioni diverse, lo libera. Si tratta di un’esperienza di cambiamento più radicale di quella che può accompagnare qualsiasi altro sport, perché l’acqua ci porta in una dimensione spazio-temporale molto diversa rispetto a quella che viviamo all’asciutto. I suoni, i pensieri, le preoccupazioni, il ritmo del cuore, la temperatura corporea, tutto cambia in acqua. Salvarsi vuol dire dunque accettare il cambiamento e le sue conseguenze, accettare di lasciarsi andare, di immergersi in altro da sé. La poesia più famosa di Leopardi, L’infinito, termina proprio con due versi che alludono a uno smarrimento di sé non sofferto, bensì sublime, una sorta di rigenerazione “Così tra questa /immensità s’annega il pensier mio:/
e il naufragar m’è dolce in questo mare”. Annegare e naufragare, da verbi legati alla sventura e al disastro in acqua, diventano gli ausiliari di un attraversamento che amplifica la percezione. Un motivo che Franco Battiato riprende e volgarizza nei versi di una sua celebre canzone, Summer on a solitary beach: “Mare mare mare voglio annegare portami lontano a naufragare via via via da queste sponde portami lontano sulle onde.”

Barbero sostiene che ogni nuotata abbia il potere di mettere in discussione l’io, facendo calare in un certo senso l’anima nel corpo, spostando il confine incerto, e fittizio, che la quotidianità assegna all’uno e all’altra. Prima però di attingere al piacere vellutato dell’acqua che scorre sulla pelle, alla fatica piacevole del corpo che la fende, al lasciarsi andare in un assaggio di infinito, bisogna vincere la resistenza iniziale, anche questa largamente paradigmatica di un modo di stare al mondo come sembra indicare un’altra famosa poesia, Falsetto, di Eugenio Montale dove la nereide Esterina si tuffa col sorriso in un mare che l’abbraccia amico, mentre qualcuno (il poeta, noi con lui) rimane a terra a guardare.

Giustamente Barbero sottolinea questo passaggio, perché non è per nulla scontato passare dall’idea di salvarsi o di mettersi alla prova, a quella di abbandonarsi, con più o meno estasi. 

“L’acqua non oppone resistenza e quando ci abbandoniamo e facciamo quello che letteralmente viene chiamato il morto sperimentiamo una condizione di consegna del nostro corpo all’elemento acquatico che non ha eguali in nessun’altra condizione”. Ma di nuovo la lingua fa da spia al confine sottile che corre fra il piacere estremo (l’abbandono di sé) e il pericolo estremo (la morte), se per descrivere il galleggiamento da supini, quando braccia e gambe divaricate possiamo contemplare il cielo stando in acqua, usiamo l’espressione fare il morto. 

“Ecco allora che fare il morto non vuol dire solo guardare il mondo nella prospettiva di quando non ci saremo più. Vuole anche dire osservarlo dalla prospettiva di chi non ha più niente da perdere, perché non ha niente, in senso proprio, essendosi spogliato/a di tutto”, conclude Barbero. 

Come una preghiera che non chiede ma contempla, il nuoto può portarci più vicino al limite e al suo superamento, che può voler dire semplicemente accettarlo.

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