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Cronologia dell’acqua di Lidia Yuknavitch

Recensione al libro: Lidia Yuknavitch, Cronologia dell’acqua, Nottetempo 2022

Abbiamo imparato, negli ultimi trent’anni di osservazione nelle calotte polari, che dai carotaggi di ghiaccio si ricavano molte informazioni: l’acqua congelata per millenni ha trattenuto le tracce di siccità, di annate di freddo particolarmente intenso, della diffusione di certi tipi di polveri e batteri, e da ultimo dell’aumento spropositato di Co2 nell’aria e del conseguente surriscaldamento atmosferico. Il ghiaccio ha memoria, l’acqua pure. Conservano al loro interno una stratificazione del tempo.

Con una convinzione pari a quella scientifica, Lidia Yuknavitch, scrittrice nata a San Francisco nel 1963, ha adottato l’acqua quale elemento unificante e metafora potentissima di un libro che risulta difficile definire come un’autobiografia tout court – sebbene ne abbia molte caratteristiche, almeno secondo il modello rapsodico inaugurato dalla beat generation – ma sconfina spesso in una sorta di bildungsroman e perfino, a tratti, nel racconto picaresco. Quella che l’autrice narra nella Cronologia dell’acqua,uscito in lingua originale nel 2011 e ora tradotto da Alessandra Castellazzi, è una storia così sovraccarica di luoghi comuni – la violenza familiare, l’abuso di alcol e droghe, il talento atletico e agonistico dissipato, la perdita di una figlia, due matrimoni falliti e infine la resurrezione – da richiedere un’infrazione continua delle regole: non c’è pagina in cui Yuknavitch non si rivolga al lettore per ricordargli che quello che sta dicendo è vero, realmente accaduto, dolorosamente vissuto, ma al tempo stesso trasfigurato dalla scrittura, dalla memoria, dalla volontà di liberarsi di facile etichette, dalla sfida a riflettere sul genere e sulle categorie culturali e morali con le quali si divide il mondo in maschi e femmine, buoni e cattivi, vincitori e perdenti. Per questo, in un libro che così di frequente s’inabissa nel registro basso della corporeità fatta di umori, lacerazioni, violenze, deiezioni, espansioni orgiastiche, pericolose perdite di controllo, troviamo un contraltare letterario in cui l’autrice dichiara di non voler riscrivere libri come The Heroin Diaries o Trainspotting, consapevole che esista una letteratura legata agli stupefacenti così come esiste una letteratura legata all’abuso familiare e alle ferite che sembrano inemendabili. Per citare le sue stesse parole, “quanto è diventato commerciale il racconto della perdita”.

Cronologia dell’acqua ambisce a essere qualcosa di diverso proprio a partire dall’uso letterale e metaforico che l’autrice fa del nuoto e dell’immersione; lo dichiara fin dalle prime terribili pagine in cui descrive la nascita della sua prima figlia morta. “Nell’acqua, come nei libri, puoi abbandonare la tua vita”. Abbandono nel doppio senso di lasciarsi andare, perdere peso, diventare fluida, dimenticando la propria aggrovigliata e danneggiata individualità, ma anche essere disertata dalla vita, lasciarsi morire per mancanza, affogare.

Due sensi opposti che nel libro convivono e si sfidano: se col nuoto l’autrice ha da sempre avuto un enorme dimestichezza, la scrittura è stata viceversa una conquista faticosa e lenta. Lidia Yuknavitch è stata una nuotatrice agonistica di altissimo livello con tempi che a sedici anni le avrebbero aperto le porte di tutte le più prestigiose università americane, all’orizzonte perfino le olimpiadi, ma un padre violento e incapace di concederle spazio, una madre passiva e alcolizzata la portano a distruggere il proprio talento, a bere e strafarsi di qualsiasi droga, a consumare sesso promiscuo e compulsivo con l’unico obiettivo di dimenticarsi di sé. Lidia ha nuotato di giorno e di notte in laghi, piscine, fiumi e nell’oceano; ha rischiato di annegare in kajak, ha condiviso l’acqua con la scrittrice della controcultura punk newyorkese Kathy Acker, modello di estrema disinibizione sessuale e autodeterminazione femminile, e con lo scrittore Ken Kesey, suo mentore. Ha cercato nell’acqua di dimenticare le violenze del padre che, quando Lidia ha sette anni, la spinge giù da una collina su una bicicletta che non sa guidare, provocandole diverse contusioni e la rottura dell’imene, e ancora prima a quattro anni la obbliga a immergersi nella corrente gelida di un fiume, in una fredda giornata di novembre.

Ma il fluttuante e denso mondo subacqueo, dove Lidia cerca rifugio, non è sufficiente a riparare la voragine emotiva di questa bambina punita e ferita, poi adolescente ribelle e giovane donna dannata. Le droghe e l’alcol le spalancano un abisso dove “il linguaggio è incapace di descrivere l’emozione”, e per chi come lei ha subito reiterate emozioni negative e traumi, cosa c’è di più desiderabile di un’anestesia perenne?

La scoperta che, viceversa, è proprio il linguaggio ciò che può riportare passione e senso, mette in moto una forma di rinascita: l’iscrizione all’università, la laurea in letteratura inglese, l’insegnamento di scrittura creativa e l’incontro con un uomo che poi diventerà marito e padre del loro figlio.

Tornare a sentire, tornare a essere un corpo che si esprime, che entra in relazione con sé, gli altri, e il mondo, anziché desiderare di essere annientata, sono conquiste che un io costruito attraverso l’amore per la letteratura acquisisce non meno che attraverso l’amore per un uomo. Solo allora diventa possibile per l’autrice fare i conti sul serio con l’acqua e la sua memoria: smette di essere figlia uscita dalla testa del padre (come Atena) per subirne le percosse, smette di voler regredire al liquido amniotico del ventre della madre che, nella realtà, non ha saputo difenderla, smette di sfidare la morte, mentre accetta di lasciare andare il proprio dolore, la propria rabbia nella corrente. Si tratta di una risoluzione del passato che trova il proprio correlativo oggettivo in tre scene che punteggiano il testo: la dispersione delle ceneri della figlia nata morta, quelle del padre e della madre. Solo allora potrà dire: “Sono un corpo nell’acqua. Ancora. Sono a casa”.

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