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Dialogo sul Corpo tra Alessandra Sarchi e Mauro Covacich

ArticoloDialogo sul Corpo tra Alessandra Sarchi e Mauro Covacich, La lettura, 18 luglio 2021

AS

Ho letto il tuo libro Sulla corsa con un misto di immedesimazione, divertimento – non ti manca l’autoironia e ne fai una cifra stilistica – e anche di presa di distanza. Hai iniziato a correre, molti anni fa, per tenerti in forma, o riprendere la forma come si suol dire oggi, poi attraverso numerosi incontri e un costante ascolto delle variazioni che produceva in te questa pratica, sul piano fisico e più ancora su quello psichico, ne sei diventato dipendente. E non ti bastava più correre con metodo tre o quattro volte la settimana, estendendo di volta in volta il percorso; hai deciso di affrontare la misura più lunga: la maratona. Fin qui ti seguo. Quando facevo danza, non mi bastavano gli allenamenti in classe; a casa ripetevo gli esercizi per ore, rapita dallo stesso ideale di lotta contro i miei limiti che tu descrivi. Poi però, come racconti molto bene nel libro, ti sei accorto che la maratona era diventata una dimensione totalizzante, ogni grammo che mangiava del tuo corpo, delle tue ossa (poi ridotte maluccio, la corsa è traumatica si sa) del tuo cuore (che a lungo andare ha risposto con l’ipertrofia) diventava una forma di dissolvimento. Smaterializzarsi, alleggerire o addirittura annullare l’io è il traguardo anche dello yoga, che come sai pratico da diversi anni, eppure il principio su cui si basa è opposto a quello che tu hai sposato: mai forzare. Tu invece hai sforzato, eccome. Ne hai fatto una filosofia. Sono molto più pigra di te, lo confesso. Ma sospetto che ci sia al fondo anche una percezione o concezione della corporeità diversa, più agonistica la tua, di un agonismo in senso lato: lato contro te stesso, fra mente e corpo, fra te e il mondo, e più panteistica la mia, anche qui in senso lato, visto che ti puoi immaginare come sia difficile esercitare l’immersione nel mondo standone sempre staccata, per via della sedia a rotelle su cui mi muovo.

MC

Hai già colto nel segno. Per anni ho lottato contro il corpo. Il corpo come soma, di nome e di fatto. Inutile fardello che ci inchioda al suolo terrestre, ho lavorato a lungo perché ci fosse sempre meno peso, sempre meno materia. Un corpo da espiare, per la colpa di essere venuti al mondo, esseri sublunari che attraversano la luce di quello che Anassimandro chiamava l’apeiron, l’indefinito, e poi costretti a tornare nell’ombra pagando il proprio tributo secondo l’ordine del tempo. Non si trattava certo dell’alleggerimento dell’io favorito dallo yoga, si trattava semmai di un io precipuamente occidentale, un io rigido, inquieto, che combinava il titanismo di Alfieri e il retaggio del cristianesimo (il corpo desideroso, il corpo colpevole). Avrei voluto diventare anch’io un “respiriano”, un essere in grado di vivere di sola aria, come sogna Anna, la ragazzina anoressica del tuo ultimo romanzo, ho molte cose in comune con lei… Poi per fortuna qualcosa si è rotto, forse ne parlerò più tardi, ma vorrei che fossi tu ora a introdurci alla tua esperienza del corpo, alla storia di questa esperienza: se cioè quella che tu chiami la tua concezione panteistica ha preso forma dopo l’incidente, oppure ti ha permesso di accogliere l’incidente nella tua immersione nel mondo.

AS

Nella mia esperienza il movimento e lo sport sono sempre stati un modo per raggiungere una forma di benessere e armonia, non solo perché come ho appreso dal linguaggio medico innescano una chimica euforizzante, rilasciando endorfine, adrenalina, dopamina ma soprattutto perché il corpo è sempre stato un canale di conoscenza del mondo. Osservare le percezioni, le reazioni agli stimoli, la memoria accumulata nell’apprendere gesti e nel ripeterli o variarli non è mai stata per me un’attività meccanica, ma una fonte inesauribile di riflessione intorno a quello strano fenomeno che è essere un corpo, non scelto, non modificabile se non entro certi limiti, eppure sede di identità. Essere un corpo, non avere un corpo. Questa distinzione che risale al filosofo francese Merlau-Ponty, l’ho capita appieno quando ho perso l’uso delle gambe. Noi siamo il nostro corpo, non lo abbiamo come si può avere un cappotto, o un raffreddore. Siamo un insieme finito e logorabile di organi e tessuti e ossa, eppure siamo anche di più. Cogliere il di più non è così facile, forse proprio per questo l’umanità ha inventato una gran quantità di discipline fisiche: per andare oltre i confini, per sentire che è possibile espandersi oltre. E poi siamo animali portati alla compensazione: tu hai smesso di correre la maratona, ma nella tua testa continui a farlo. O sbaglio?

MC

Essere un corpo, appunto, non disporne come di un attrezzo, è una cosa che sto imparando negli ultimi tempi, grazie agli acciacchi. Ho sempre corso per stare male, per non darmi tregua, ora una varietà di piccoli malanni mi sta guarendo. Però, hai ragione, nella mia testa persiste un residuo del maratoneta, soprattutto per quella che considero una specie di postura morale: per me la maratona è una corda tesa tra l’essere e il dover essere, la tensione costante verso il miglioramento (e quindi il trascendimento). Anche ora che non posso più gareggiare, quel residuo è riconoscibile nel tratto performativo della mia scrittura, la scrittura come arrischiamento personale, come prova, come processo in cui sono giudice e imputato. Insomma, i nostri corpi umani, così fragili e pieni di voglie, per me restano un problema. Mi viene in mente un’opera di Mona Hatoum, Corps Étranger, in cui l’artista si pratica un’endoscopia. Ciò che vediamo in quel video ci riguarda, è proprio ciò che abbiamo in comune: un esofago, uno stomaco, villi intestinali… E al tempo stesso ciò che appare sullo schermo è un paesaggio lunare, una terra incognita. Noi siamo i nostri corpi, eppure i nostri corpi non ci appartengono, sono corpi estranei, corps étranger. Mi piacerebbe riportarti alla protagonista del tuo romanzo di qualche anno fa, La notte ha la mia voce, per verificare se c’è anche lì in qualche misura questo rapporto di estraneità con il corpo e se, come a me sembra, quel libro mette in scena un percorso di riconciliazione.

AS

Non ci si riconcilia mai con una perdita di sé così grave come la semiparalisi. Io non mi sono mai riconciliata con il fatto di non poter camminare, o stare semplicemente in piedi, per non parlare dei disastri collaterali agli organi che una lesione spinale comporta. Mi sono adattata, e nell’adattarmi ho scoperto le capacità metamorfiche che ciascuno di noi ha. La notte ha la mia voce è il racconto di una metamorfosi, e dell’attraversamento di una paura immane: quella di essere prigioniera dentro un corpo che non riconoscevo più, di cui non potevo più disporre. Quanto lavoro ho dovuto fare per riappropriarmene. A pensarci bene c’è qualcosa di simile, ma in senso inverso, nella tua videoinstallazione L’umiliazione delle stelle, dove prevale l’aspetto performativo e di nuovo la dualità fra materia e mente. Credi davvero di poter abbassare la mente alla materia? E perché mai la materia dovrebbe stare a un livello inferiore? Guarda con quanta abilità si modificano i virus, una delle forme di vita più elementari, alla quale non so nemmeno se gli scienziati attribuiscano un cervello (credo di no). Non ti pare che la materia tutta sia animata da una forma di intelligenza, se per tale intendiamo la capacità di adattarsi, evolversi, sopravvivere?

MC

Ecco, sì, a me interessa quella paura immane e come hai saputo superarla. Si vede la tua metamorfosi, tu trasmetti energia, dinamismo. Ricordo la tournée che abbiamo condiviso per un premio, sembravi molto più in movimento tu di me, che in effetti in quella videoinstallazione sono arrivato al punto di correre sul tapis roulant, ovvero di muovermi restando fermo, una cosa oscena, ridicola, che esprimeva la fissità ostinata del mio interrogarmi. Ma sto migliorando, te l’ho detto, la perdita di efficienza fisica mi ha migliorato, non penso più al corpo come vile res extensa… Quanto all’intelligenza della materia, figurati se non ti seguo, vengo da una formazione antimetafisica, con filosofi che parlavano di piani di immanenza, corpi senza organi e macchine desideranti. Eppure, anche dopo la fine della metafisica, continuo a credere che noi siamo esseri speciali, animali parlanti, animali morenti (che sanno di morire), esseri la cui intelligenza non resta invischiata nell’amalgama dei corpi ma tende verso un oltre, verso un fuori, facendosi parola. Noi siamo corpo e parola. La parola non si rassegna alla materia (“quest’atomo opaco del male”, Pascoli), la parola si stacca dal suo segno (sema in greco è anche tomba) e diventa suono, significato, e quindi mito, racconto, in una parola: forma. Corpo e parola, materia e forma.

AS

Non so cosa sarebbe la mia vita senza parole. Credo che semplicemente non sarebbe. Tutto ciò che conosco, e tutto ciò che amo, prende forma di parola. Siamo esseri simbolici e dunque verbali, tuttavia non diamo lo stesso peso e significato alle parole. Per me e per te le parole sono divinità con cui trattare con onestà e con grazia – abbiamo scelto la scrittura come vita – per molti le parole sono aria che passa. Se credi alla parola come corpo, non puoi lasciarla transitare come se niente fosse: ne avverti l’ingombro, la precisione o la sfasatura, è concreta come una mano che ti accarezza o ti colpisce. Gianni Celati dice che le parole, come le immagini, non si lasciano mai afferrare del tutto, e dobbiamo rassegnarci a vivere in un mondo di apparenze, di illusioni che, come ricorderai, per Leopardi sono la parte migliore della vita. A proposito di apparenze, ti ho raccontato di quella ragazza che stava su una sedia a rotelle elettrica, un catafalco piuttosto ingombrante da vedere, e che per tutto il tempo in cui le ho parlato mi ha dato la sensazione di essere di fianco a una creatura leggera e mobile come una libellula? Vedi un po’ come l’idea di corpo in movimento possa essere relativa. Celati dice anche che dobbiamo continuare a chiamarle le parole “perché non diventino tanto estranee da partire ognuna per conto suo in una direzione diversa del cosmo, lasciandoci qui incapaci di riconoscere una traccia per orientarci”. Mi sembra di avere passato i miei primi cinquant’anni a orientarmi e di non aver ancora del tutto imparato.

MC

Per orientarci servono le stelle, corpi celesti che girano attorno all’Uno per amore. L’inesorabile distanza dalle stelle è la condizione del nostro desiderio (de-sidera), della nostra voglia di vivere come corpi sulla terra. La corsa tiene uniti il corpo e la parola, me ne accorgo ancora di più ora che mi limito a qualche sgambata nel parco insieme ai corricchianti, la comunità che prima guardavo arricciando il naso e a cui oggi appartengo. La corsa è fatta di ritmo, di respiro, come la poesia. Non sarà certo un caso se nella metrica greca e latina l’unità di misura è il piede. L’avampiede colpisce il terreno, un suono, la bocca butta fuori il fiato, un altro suono. Lunghe e brevi, un’infinita catena di esametri. A lungo ho “sforzato”, come dici tu. Ma chi si ammala di corsa non corre per essere in forma, corre perché è in guerra e vorrebbe tanto essere in pace. Per questo mi sento di dire che questa piccola anomalia cardiaca mi ha guarito. Il mio rapporto col corpo oggi è più sereno, anche se non proprio risolto. Lo yoga e, in generale, l’approccio orientale alla vita mi sono ancora lontani, ma sono persuaso da quello che dici e soprattutto dal tuo modo di essere. Cercherò di farne tesoro.

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