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Doireann Ní Gríofa, Un fantasma in gola

Recensione al libro: Doireann Ní Gríofa, Un fantasma in gola, Il Saggiatore 2022

Quando nel 1981 Élizabeth Badinter pubblicò L’amore in più. Storia dell’amore materno (arrivato in Italia solo nel 2012 con Fandango Libri) mi domando se avesse in qualche modo previsto che la maternità sarebbe divenuta, nelle decadi successive, un luogo letterario in grado di calamitare l’interesse e la passione di diverse generazioni di scrittrici. Non è difficile capire come intorno alla capacità di procreare, e al sacrosanto diritto delle donne di avere piena facoltà di decidere in merito – diritto negato lo scorso 24 giugno dalla Corte Suprema degli Stati Uniti con una surreale regressione storica – ruoti gran parte del movimento della cosiddetta seconda ondata del femminismo internazionale. Meno scontato che il tema della maternità con tutti i suoi addentellati, dall’aborto alla procreazione assistita, riuscisse a valicare la sfera del dibattito politico ed etico e a diventare materia narrativa. I presupposti, in verità, non mancano: dal concepimento all’assunzione di un nuovo e diverso ruolo della donna nella coppia e nella società, diventare madri è un processo pieno di luci e di ombre, comporta una dose molto alta di ambivalenza, tra sentimenti positivi e negativi, è dunque in nuce un tema letterario per eccellenza. La qualità e quantità di libri usciti a riguardo mi ha suggerito di chiamarla una nuova forma di epica, tutta al femminile (vedi Alessandra Sarchi, Maternità, la Lettura, 3 maggio 2020). Ma oltre alla dimensione per così dire eroica insita nell’atto comune, e sempre unico, con il quale ogni specie si perpetua, quello che comincia a emergere da queste narrazioni è una rivendicazione della peculiarità psico-fisica di tale esperienza, legata a una consapevolezza di genere. Jazmina Barrera nel memoir-saggio, La linea nigra (ed. originale 2020, trad. it. di F. Niola, La Nuova Frontiera 2022) teorizza esplicitamente: “So di altre scrittrici che stanno scrivendo di gravidanza e parto e allattamento. Questa moda mi piace tantissimo e voglio che sia molto di più che una moda. Che fossimo di più. Molte. Credo che non saremo mai abbastanza. Voglio un canone, una tradizione”. Il libro, magnificamente tradotto da Claudia Durastanti, dell’autrice irlandese Doireann Ní Gríofa Un fantasma in gola è a sua volta un misto fra memoir e biografia romanzata della poetessa Eibhlín Dubh Ní Chonaill, e si colloca nel paesaggio evocato da Barrera, ma ciò che lo contraddistingue è la radicalità con cui viene vissuto l’essere madre e il ribaltamento di alcuni stereotipi legati alla femminilità. Da un lato l’autrice, madre di quattro bambini, si vede, attraverso gli occhi del marito come “una donna che amava la droga della nascita, che annegava abitualmente nell’amore per i bambini”, consapevole del legame inestirpabile fra il dare la vita e conoscere la morte, così bene esemplificato nel capitolo “La sala d’anatomia” dove ha trascorso un anno come studentessa a praticare autopsie, dall’altro tutte quelle mansioni tipicamente delegate alle donne come l’accudimento, l’allattamento, la preparazione dei pasti, il pulire la casa non vengono raccontate come il giogo dei cosiddetti lavori invisibili che finiscono per cancellare chi li pratica, bensì come una forma di tessitura del mondo, essenziale proprio perché invisibile. Ammetto di aver provato una forma di irritazione davanti a un paragrafo come questo: “Da anni il mio sonno è interrotto dal latte. Occasionalmente, mentre mi sforzo per stare sveglia trovo conforto nell’immaginare quanto spesso questo preciso momento sia stato messo in scena non solo dal mio corpo, ma da quello di altre madri, stesse protagoniste, stessa ambientazione – il latte, la madre, il bambino, il buio, il latte, la madre, il bambino, il buio, il latte, il latte, il latte, – e in questi momenti sono atrocemente stanca, sì, eppure l’appagamento sta anche qui, luccicante nei margini, a prescindere da quanto sono esausta. Indurre mia figlia a staccarsi dal mio corpo e orientare la sua fame altrove significa tirarmi fuori dal mio confortevole rifugio di servizio”. Si tratta della stessa irritazione provata davanti al capitolo “Seghe” ne Il lamento di Portnoy di Philip Roth: la verità fisiologica femminile e maschile che si assolutizza, diventa un modo per conoscere il mondo e in una qualche misura per riscriverlo, a partire dall’evidenza del corpo. Doireann Ní Gríofa sfrutta in tutte le sue implicazioni la metafora inaugurata da Heléne Cixous dell’inchiostro bianco, ossia del latte materno e insegue tra archivi, vecchi cimiteri e cronache locali la biografia dispersa e cancellata di Eibhlín Dubh Ní Chonaill, vissuta alla fine del ’700 e autrice del lamento funebre più celebre della tradizione gaelica il Caoineadh Airt Uí Laoghaire. Il poema ci fa vedere una donna indomita nel riconoscere e seguire appetiti e passioni, nel denunciare la morte del marito colto in un agguato, ma di questa donna abbiamo notizie scarsissime e non conosciamo nemmeno la data e il luogo di sepoltura. Doireann Ní Gríofa sembra volerci dire che l’inchiostro bianco con cui è scritto il mondo va scovato, fatto emergere dalle pagine apparentemente vuote in cui si è depositato.

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