Recensione al libro: Evelina Santangelo, “Il sentimento del mare”, Einaudi 2023
Per molto tempo, millenni a dire il vero, la raffigurazione dei mari e degli oceani è stata approssimativa; un grande cerchio blu intorno alle terre al quale si ricongiungevano i fiumi, una striscia azzurra delineata sopra e sotto i contorni vaghi dei continenti. Basta guardare le mappe medievali o la tabula peutigeriana che riproduce nel XII secolo l’antica carta romana dell’impero per rendersi conto di come fosse difficile mettere in scala e dare un confine all’elemento che domina il nostro pianeta: l’acqua.
Eppure l’umanità ha sempre attraversato i mari, a nuoto, su zattere di fortuna, su navi attrezzate per la guerra o per il trasporto di merci imponenti; lo ha fatto per volontà di conoscenza, per sfida a vedere cosa si celasse dietro l’orizzonte blu, per pescare e nutrirsi, per arricchirsi col commercio, per andarsene da una terra ostile sperando in un migliore approdo, sempre con meraviglia, ingegno e fatica grandissima.
Leggendo l’ultimo libro di Evelina Santangelo, in uscita per Einaudi, Il sentimento del mare, si ha l’impressione che l’autrice abbia ripercorso quella medesima fatica e che lo abbia osservato con un senso di stupore antichissimo, consapevole che “il mare è un narratore che intaglia le storie nel suo ostinato andirivieni persino sulla roccia, che sia ritorno di schiuma o furia dei venti e correnti”. A comporlo ci sono molti racconti che vanno dall’attualità della crisi climatica, di cui l’inquinamento marino, l’innalzamento delle temperature, l’estinzione di molte specie ittiche sono lo specchio immediato, alle rotte migratorie che attraversano il Mediterraneo, al pericolo del lavoro in una tonnara, alla misconosciuta presenza delle donne pescatrici tanto sulle nostre coste quanto su quelle giapponesi, fino alle folli imprese velistiche in solitaria, come quella di John Crowhurst che nel 1968 finse di aver toccato in tre settimane tre capi, Buona Speranza, Leuwin e Horne, e finì disperso con la sua barca temerariamente improvvisata.
A tenere insieme queste narrazioni cucite con sapienza fra memoria letteraria, cronaca e testimonianza personale, è la postura stessa dell’autrice che si è messa in ascolto di ciascuna voce – pescatori, guardie costiere, madri in lutto, migranti, mediatori culturali, biologi marini, esperti di anatomia patologica, oceanografi, sub e nuotatori in apnea – e infine della propria voce, di scrittrice siciliana cresciuta fra Palermo e Castellamare del Golfo, di donna che si trova ad affrontare tre interventi al cuore, rischia la vita, e trova infine sconvolto il proprio mondo affettivo. Approdata a Lipari, in una giornata d’autunno, è nella disponibilità dei pescatori e degli avventori dell’unico bar aperto che comincia a intuire come “il mare possa essere anche questa generosità. Questo prendersi carico delle delusioni altrui, senza nemmeno sapere”, perché chi va per mare inevitabilmente fa i conti con i propri limiti, con la possibilità della sconfitta, con il pericolo, con la morte e con la perdita, per questo sa riconoscerle nel prossimo e rispettarle, con un silenzio buono o uno sguardo che accoglie.
Il mare che Santangelo esplora è concretissimo e metaforico al tempo stesso; ci sono pagine piene di sapere nautico su come si conduce un peschereccio o un gozzo, su come e dove si pescano i migliori gamberi rossi del Mediterraneo, e altrettante su come si sopravvive al lutto di una persona cara persa in un naufragio o durante l’immersione in una tonnara.
Il mito di Ulisse rivive nelle sue pagine proprio come quel tipo di viaggio e di scoperta che può avvenire solo allontanandosi dalla terra ferma, quindi dalle proprie certezze, e andando verso l’ignoto, immergendosi nell’elemento da cui si è originata la vita e che al tempo stesso è diventato per gli umani un luogo incommensurabile, dove ci si può perdere perché “non esiste confine nell’acqua” e perché, come l’autrice apprende dai sommozzatori, esiste viceversa l’ebrezza dei fondali che sdoppia la vista, fa perdere le coordinate e ti consegna alla morte.
Lo impara sulla propria pelle, in ogni bagno invernale in cui mette in gioco la propria capacità di resistenza al freddo, l’euforia e il rischio più o meno calcolato, poiché andare per mare significa guardarsi dentro, ma anche avere a che fare con un’entità sempre più grande, ingovernabile e misteriosa.
Ne nasce un sentimento, quello che dà il titolo assai appropriato al libro, che riunisce in sé una varietà di esperienze e di emozioni; paura, gioia, liberazione, sfida convivono e si alternano e infine sono dominate da una forma di pietas che il mare stesso insegna nel suo incessante moto di togliere e dare, disfare e rimodellare.Così mentre Europa e paesi del nord Africa non trovano accordi veramente efficaci per frenare quell’emorragia di vite che su barche e gommoni di fortuna cercano scampo da guerre e miseria, e troppo spesso annegano a poche centinaia di metri da riva o in mare aperto, c’è chi costruisce un museo a Zarzis, sulle coste tunisine, per raccogliere tutto quello che le onde riportano a riva: corpi, vestiti, oggetti personali, frammenti di imbarcazioni, legni e metalli, o chi in laboratorio a partire da un frammento di tessuto organico cerca di restituire l’identità di una vita annegata. Il sentimento del mare è anche un libro sul raccogliere i cocci, della propria esistenza, e più in generale delle azioni umane così capaci di portare distruzione. Alla furia degli elementi, alla perdita degli affetti e al saccheggio delle risorse, Santangelo contrappone in un sommesso controcanto la pietas della memoria e la cura, anche quella tenacemente folle con cui il biologo marino Carmelo Isgrò recupera i resti putrefatti di un capodoglio spiaggiato a Capo Milazzo e per due anni ne ripulisce le ossa dal grasso, conservando la plastica ingerita che aveva causato la morte del cetaceo: tutto verrà esposto in un museo per sollecitare rispetto, responsabilità, amore, poiché questo è anche ciò che il mare ha da insegnarci.