Articolo: Il tempo di Penelope, La lettura, 16 gennaio 2022
A giudicare dal numero di pubblicazioni uscite negli ultimi tempi i poemi omerici non godevano di tanta attenzione, tra riscritture, traduzioni e saggi, da quando la moderna filologia a cavallo fra Otto e Novecento cominciò a mettere in discussione non solo la loro unitarietà, e l’appartenenza a un unico autore, ma anche il peso determinante del contesto orale in cui erano stati prodotti, e a lungo tramandati, prima di diventare scritti. Con buona pace della cancel culture che in alcuni prestigiosi college statunitensi ha suggerito di eliminare la lettura di Iliade e Odissea perché considerate depositarie di valori misogeni, razzisti e guerrafondai, o forse anche proprio per reazione a questo fraintendimento madornale sull’uso della letteratura, assistiamo a una nuova fioritura di interesse per i testi considerati alla base della cultura occidentale. L’esempio più eclatante, per il riscontro di pubblico avuto in tutti i paesi in cui è stato tradotto, è forse La canzone di Achille di Madeline Miller, dove si dà corpo alla vicenda omoerotica fra Achille e Patroclo, ben presente nell’Iliade e nelle fonti antiche, sebbene in sottotraccia. Certo, alcuni antichisti storcono il naso. Ma la riscrittura è una pratica antichissima, già Ovidio con le sue Heroides si era cimentato nella riattualizzazione di figure del mito, e gli stessi poemi omerici cosa sono se non sovrascritture andate avanti per qualche secolo di storie dotate di molte varianti? Oggi più che mai non possiamo considerare l’antichità un blocco di sapere e di valori da accettare in maniera acritica, o farne un uso estetizzante, ancorché magnifico, come è stato fatto nel Rinascimento, o pensare come Daniel Mendelsohn che “la natura dell’uomo è la stessa fin dalle origini. Per questo i miti ci dicono cose che sono vere ancora oggi”, perché è un assunto essenzialista che non tiene conto di quanto l’umanità sia determinata da geografia e storia e ciò che chiamiamo natura altro non sia che cultura, quindi elaborazione di rapporti di forza e sovrastruttura simbolica. La trasmissione del passato ha sempre avuto, e ha ancora oggi, bisogno di molte mediazioni per poter cogliere continuità e discontinuità; ogni rilettura dovrebbe essere un esercizio di contestualizzazione. Se vogliamo attenerci alla definizione di Calvino, “classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire”, allora la validità dei testi antichi si misura sulla capacità nel tempo di continuare a sollevare delle domande più che a dare delle risposte, che verisimilmente saranno diverse per ogni epoca, ossia la capacità di contenere dentro di sé porosità, punti ciechi e sfondamenti, elementi che sfuggono alla normatività con cui una società si autorappresenta.
La questione dei diritti della donna e del suo ruolo nella cultura greco-romana è centrale a questo processo, e si può solo essere grati a una studiosa come Eva Cantarella che, ben prima del diffondersi dei gender studies, ha analizzato la marginalità giuridica e l’alienazione sociale femminile in un libro fondamentale come L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, la cui prima edizione risale al 1984. Cantarella ritorna ora su questo argomento con Gli inganni di Pandora. Le origini della discriminazione di genere nella Grecia antica (in uscita presso Feltrinelli) dove fin dal titolo è reso esplicito il legame fra i fondamenti antichi della nostra civiltà e la condizione minoritaria che ancora oggi le donne vivono. Per poterle relegare in spazi ben definiti della casa, impedire loro di attraversare la città se non accompagnate, privarle del diritto di successione ereditaria, di quello di voto e di scelta del marito, nonché dell’istruzione – con qualche deroga che però conferma la consuetudine generale – era infatti necessario far risalire l’inferiorità e la pericolosità delle donne a un disegno cosmogonico, che è precisamente quello che il poeta greco Esiodo fornisce nelle Opere e i giorni, quando racconta come per punire gli umani del furto del fuoco, Zeus prima incatenò Prometeo a una pena eterna, poi mandò sulla terra Pandora, la prima donna, portatrice di infinite sofferenze con il vaso che le era stato dato in dono dal re stesso dell’Olimpo e che lei, curiosa e inaffidabile come tutte le donne, aprì in barba al divieto ricevuto. Con un’antenata del genere, bellissima, seduttrice e di “indole cagnesca”, come potevano le donne non essere quell’alterità sempre diminuita, di cui è stato messo in discussione tutto, perfino l’attributo biologico più evidente, cioè la capacità di generare la vita? Non dimentichiamo infatti che per Aristotele, per Dante e per molti fisiologi ancora alla fine del ’700 il contributo femminile alla procreazione era quello di essere un mero contenitore. Un altro vaso, dunque. Il meglio che poteva fare una donna era: essere bella, occuparsi delle faccende domestiche, ubbidire al padre o al marito.
Esistono eccezioni come Circe, Medea, Cassandra, Calipso, le quali, tuttavia, per godere di un maggior spazio di movimento devono avere a che fare con la magia, il sacerdozio, la capacità profetica o la divinità; si tratta quindi di figure eccezionali nel loro percorso e nei loro attributi. Non è un caso che su di esse si siano concentrati alcuni casi tra i più interessanti di riscrittura, penso alla Cassandra e alla Medea di Christa Wolf, o alla più recente Circe di Madeline Miller. Sono eroine in cui l’immagine femminile appare più sfaccettata e quindi più facile è l’avvicinamento con la modernità.
Eppure, a rileggere con attenzione Iliade e Odissea,i mitografi antichi e lo storico Pausania che parla della sua infanzia, anche la donna che più di tutte sembrerebbe incarnare l’ideale normativo, ossia Penelope, emerge come una figura assai più sfidante della moglie fedele al marito, ubbidiente e rinchiusa nelle mura della propria casa-reggia, che la tradizione ha tramandato. Molteplici sono infatti gli elementi di difformità. Intanto, nonostante perfino il figlio Telemaco si rivolga a lei con parole che marcano in maniera incontrovertibile la misoginia antica: “Su, torna alle tue stanze e pensa alle opere tue. Telaio e fuso; e alle ancelle comanda/ di badare al lavoro; all’arco penseranno gli uomini/ tutti, e io sopra tutti, mio qui in casa è il comando” (Od. 21, 350-53) Penelope riesce a far sì che non subentri per vent’anni un altro re a Ulisse. Telemaco non è tale, né lo sono i Proci. Poi: non solo nel canto XVIII, dopo un assedio pluridecennale decide inspiegabilmente di rivelarsi ai pretendenti nella sua bellezza e di chiedere doni nuziali, ma anche in precedenza aveva scambiato con loro messaggi, oltre a tenerli buoni con lo stratagemma della tela. Flirtava con qualcuno di loro? Lo pensava già lo scrittore greco Apollodoro, ipotizzando che Penelope avesse ceduto al corteggiamento di Antinoo. Inoltre: è credibile che non abbia riconosciuto Ulisse, sotto i panni del mendicante, e ciononostante che abbia insistito perché partecipasse alla gara con l’arco? Non sarebbe più logico che avesse riconosciuto il marito e ne avesse intuito le intenzioni, altrimenti per quale ragione Amfimedonte dichiara, nel canto XXIV, che la strage dei Proci compiuta da Ulisse era stata pianificata con Penelope?
Lungi dall’essere “quella piccolo-borghese che aspira solo alla tranquillità domestica”, secondo la sprezzante definizione di Gabriele D’Annunzio (Maia, 1903) Penelope, oscurata per secoli dall’ingombrante marito per il quale ogni epiteto porta in greco il prefisso di ‘poly’, – molto intelligente, molto astuto, molto capace etc. – ha attirato nella seconda metà del Novecento una crescente attenzione: da parte dei filologi per le discrepanze nel testo che la rendono un personaggio non univoco e sfuggente, da parte di saggisti e scrittori che hanno provato a ricomporne la figura proprio a partire dalle sue ombre che si estendono dalla sua infanzia con un tentativo di annegamento da parte del padre Icario al confronto con le terribili cugine Clitemnestra ed Elena.
Penelope è diventata, come afferma Elena Rausa (https://laricerca.loescher.it/penelope-e-le-altre-parte-prima/) una figura chiave con cui misurare il nostro rapporto con l’antichità.
Si potrebbe partire col ricordare Penelope alla guerra di Oriana Fallaci (Rizzoli 1962) dove il confronto con l’archetipo muliebre della pudicizia e della fedeltà è risolto sul piano della provocazione: la protagonista si proietta in un’eroina intrisa di femminismo che ripudia la casa e la quiete, scegliendo il viaggio, l’avventura. Mentre Silvana La Spina in Penelope (La tartaruga 1988) dilata l’infanzia dell’eroina facendone una figlia abusata dal padre e quindi impaziente di scappare; d’altronde questa Penelope abbandona anche Odisseo e fugge da Itaca. Nel romanzo di Luigi Malerba, Itaca per sempre (Mondadori 1997) l’inverosimiglianza del mancato riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope diventa il motore di una narrazione intima del loro rapporto di coppia, che fa emergere un Odisseo assai meno sicuro di se stesso e delle proprie astuzie e una Penelope piena di complessità psicologica. Una lettura che l’Odissea e l’Iliade in una certa misura legittimano poiché la complicità racchiusa nella coppia Andromaca-Ettore trova parallelo solo in quella fra Penelope e Odisseo, uniti da un comune sentire, come basterebbero da soli a siglare i versi del canto XXXIII in cui i due, finalmente ricongiunti, si raccontano le loro peripezie sul talamo nuziale. Sul ricongiungimento dei due è incentrato anche il monologo drammatico di Rosaria Lorusso Penelope (Editore d’If 2003), tour de force linguistico nell’interiorità dell’eroina. Roberto Calasso ne Le nozze di Cadmo e Armonia (Adelphi 1988) si concentra sul gesto di alzare il velo: non solo un atto di pudore, ma un modo per alludere all’insondabilità dell’anima, al suo apparire e nascondersi, di cui Penelope sarebbe altamente consapevole.
Ma il testo che ha rivisitato in maniera più incisiva e dinamica la figura di Penelope, anche rispetto alle fonti antiche e alla problematicità della presa di parola di una donna, è Il canto di Penelope di Margaret Atwood (The Penelopiad 2005). Qui un’ombra ci parla dai campi Elisi e ripercorre la propria storia a partire dal nome che le è stato dato, Penelops, che Atwood, accogliendo una tradizione di tardi commentatori, associa a quello dell’anatra. Dunque non una donna di mitica bellezza – figuriamoci una che si chiamava anatra – ma intelligente e introspettiva, in grado di apprezzare le stesse doti in Odisseo, di prevederne gli inganni e lasciarglieli compiere, ma anche frustrata per una vita d’attesa, per un marito irrequieto perfino da morto, e per la strage da lui compiuta delle sue dodici ancelle, già vittime degli stupri dei Proci. La Penelope di Atwood traspone nell’interiorità riscostruita dell’eroina istanze di riconoscimento tipicamente femministe, ma con grande efficacia le mette in relazione a elementi già presenti nel mito. Anche nel suo recente La morte di Penelope (Marsilio 2019) Maria Grazia Ciani, che dei poemi omerici è anche grande traduttrice, accoglie l’idea di Apollodoro che Penelope dopo tanti anni di solitudine abbia ceduto al corteggiamento di Antinoo, e che Odisseo ritornato l’abbia uccisa per questo. Ciani ci consegna una figura che ricuce l’elusività omerica a una più vibrante umanità, la sua come quella di Atwood è una Penelope stanca e insoddisfatta della vita che ha vissuto, più tragica che epica. Infine, nel saggio Elena e Penelope. Infedeltà e matrimonio (Einaudi Stile Libero, 2021) Giorgio Ieranò mette a confronto le due cugine: apparentemente due modelli opposti, ma secondo lo studioso, esse sono le facce di un’unica medaglia, la condizione femminile stretta fra rigide convenzioni ed eversione da quelle stesse. Penelope, a quanto pare, ci interroga ancora.