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Louisa May Alcott, “Le nostre teste audaci”

ArticoloLouisa May Alcott, “Le nostre teste audaci”, Sette, 12 febbraio 2021

Chi era Louisa May Alcott? Tutti la conosciamo come l’autrice di Piccole Donne, best-seller per ragazze che ha attraversato quasi due secoli e numerosissime trasposizioni teatrali e cinematografiche, nonché come la gioviale zitella tornata a vivere con gli anziani genitori nella casa in cui era stato ambientato il romanzo a Concord, nel Massachusetts, dove morì a 55 anni. Eppure fu molto di più di questo. La lettura di alcune lettere, mai tradotte, e pubblicate ora dall’Orma Editore per la cura di Elena Vozzi, può essere l’occasione per ridare tridimensionalità a una donna di grande spessore intellettuale, a un’attivista per i diritti formidabile e coraggiosa, a una scrittrice niente affatto paga ‘della letteratura edificante’ – così la definiva lei stessa – con cui si era guadagnata il successo.

La raccolta spazia dalle missive scambiate alla fine degli anni ’40, periodo in cui viveva con la famiglia a Fruitlands, nell’esperimento comunitario dei cosiddetti trascendentalisti di cui facevano parte Ralph Waldo Emerson, Henry Thoreau, Margaret Fuller, agli anni ’80 quando Louisa May Alcott era tornata a stare coi genitori, lei stessa piuttosto acciaccata nel corpo.

A legare queste lettere una grande passione per la conoscenza, una lucida consapevolezza di aver ricevuto un’educazione eccezionale, perché ispirata a principi egualitari fra uomini e donne, fra bianchi e neri, e una ricerca indomita dell’autonomia, perché a Louisa May Alcott, sbarcata sedicenne e sola a Boston, era molto chiaro, come lo sarà in seguito a Virginia Woolf, che una donna per poter scrivere doveva guadagnarsi una forma di autosufficienza economica.

Sono commoventi le lettere indirizzate alla sorella Ann, nel periodo in cui Louisa viveva a Boston e, facendo i lavori più disparati, dal rammendo di vestiti all’insegnamento privato, si preoccupava di risparmiare i soldi per poter comprare uno scialle alla madre, un cappellino grazioso alla sorella Amy, una risma di carta per il padre. Gettano luce su una vita durissima, in cui l’aspirazione a diventare scrittrice veniva coltivata a costo di sacrifici costanti; eppure con quanta ironia e grazia Louisa sa trattare anche con gli editori, tutti uomini, che cominciano a pubblicare in riviste i suoi primi racconti, spesso usciti sotto lo pseudonimo maschile di A.M. Barnard.

Garbata ironia, ma anche una fiera dignità: la breve missiva con cui nel 1871 si rivolge a James T. Field, rimette al suo posto il direttore della prestigiosa rivista “Atlantic” che una decina di anni prima con fare paternalistico le aveva sconsigliato di scrivere e prestato quaranta dollari per aprire una scuola e dedicarsi solo all’insegnamento: “dicendo che avrei potuto restituirglieli quando fossi diventata ricca sfondata. Poiché inaspettatamente il miracolo è avvenuto, desidero tenere fede alla mia parte dell’impegno”.

D’altra parte prima di arrivare alla consacrazione di Piccole Donne, uscito nel 1868, Louisa aveva esplorato tanto la vita, quanto le possibilità della letteratura. Durante la guerra di secessione si era fatta mandare al fronte come infermiera volontaria, e in un’appassionata lettera al colonnello Higginson chiedeva di poter servire ancora per la causa unitaria, sicura di trovarsi “affaccendata in occupazioni più nobili di quelle che offre il focolare domestico.” Da questa esperienza nasce la prima raccolta di racconti Hospital Sketches, di cui deciderà di devolvere i diritti a favore degli orfani di guerra.

E se le storie gotiche, un po’ truci che aveva pubblicato nelle riviste sotto pseudonimo maschile non la interessavano più, l’amore, nelle sue forme meno convenzionali, quello fra un fuggitivo nero e un’infermiera bianca del racconto The Contraband, o quello extraconiugale del romanzo Umori mutevoli la portavano a esplorare territori interdetti alla penna di una donna, e a rivendicare la libertà dei sentimenti e della loro espressione, come leggiamo nella bellissima lettera, scritta all’amica e scrittrice Caroline Haely Dall, in cui difende la protagonista del suo romanzo, sottraendola a qualsiasi tentativo di moralizzazione. D’altronde non esitava a dichiarare in una missiva molto divertente a Elizabeth Powell, direttrice di un college, che in Piccole donne crescono le toccava, suo malgrado, maritarle tutte quante perché gli editori vogliono che “i libri siano infarciti di matrimoni un tanto al chilo”.

Nel maggio 1879 veniva approvata nel Massachusetts una legge che estendeva alle donne il diritto di voto nei comitati scolastici locali, Louisa May Alcott fu la prima a iscriversi alla lista elettorale di Concord. In una lettera aperta al “Woman’s Journal” descrive l’episodio: “Nessun fulmine è caduto sulle nostre teste audaci”. Come sempre ironica, ma soprattutto orgogliosa di far parte di un gruppo di donne, “teste audaci”, che non aveva avuto timore di fare qualcosa da sempre riservato solo ai maschi. Essere femminista per Louisa May Alcott voleva dire soprattutto condividere le conquiste con le altre donne. Alle giovani sorelle Lukens, che compilavano e stampavano un giornalino settimanale, come in Piccole Donne, e si erano rivolte a lei per avere consigli, la scrittrice rispondeva non con una generica lettera di incoraggiamento, ma con una dichiarazione che dovrebbe valere anche oggi: “Mi piace aiutare le donne ad aiutare se stesse, perché questo a parer mio è il miglior modo di risolvere la questione femminile. Qualunque cosa siamo in grado di fare, e farla bene, è nostro diritto farla e nessuno potrà negarcelo”.

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