Articolo: Luigi Ghirri o dell’impermanenza, Corriere della Sera, 11 giugno 2021
Luigi Ghirri non è mai stato un fotografo del genius loci, se per questo s’intende una specificità emiliana o padana. Prima ancora che il culto dei confini e dei luoghi assumesse discutibili connotati politici, Ghirri ne rifuggiva la chiusura che è prima di tutto dello sguardo. Della Pianura padana diceva che era un immenso luogo comune, una tavola dove memorie e ricordi sono in ogni angolo, in un movimento disordinato e incessante. Come si lavora, dunque, sui luoghi comuni, sulle abitudini che ci impediscono di vedere la realtà sostituendola con una rappresentazione convenzionale? Gli scatti di Ghirri dei primi anni settanta si muovono alla ricerca di immagini che scartano tanto la monumentalità quanto la retorica del bello: fotografava i margini, le periferie dei paesi, i bordi di strade e canali, i marciapiedi, le vetrine e le serrande abbassate, la tessitura granulare dei muri, l’ordito del ciottolato, il gioco ritmico e simmetrico della cartellonistica pubblicitaria sui muri, il verde cittadino e i segni di urbanizzazione sulle spiagge. Eppure le sue fotografie di questi soggetti, tutt’altro che canonici o esteticamente pregevoli, sono bellissime perché realizzate con l’intento di una precisa poetica: “Fotografare è soprattutto rinnovare lo stupore, come si osserva il mondo in uno stato adolescenziale, rovesciare il motto dell’Ecclesiaste, perché non c’è niente di antico sotto il sole”.
Attento al dibattito teorico coevo sullo statuto della fotografia – arte o mera riproduzione dell’esistente, strumento di documentazione o interpretazione? – Ghirri non si arrende all’idea che l’immenso super-market che è diventato il paesaggio che ci circonda possa accogliere solo uno sguardo di disprezzo o di disagio, al contrario ne va cercato il gioco formale che intrattiene con le nostre abitudini visive, e nella relazione affettiva che instauriamo con ciò che ci circonda.
Prendiamo l’esempio della celebre fotografia della coppia ripresa di spalle, che avanza mano nella mano sullo sfondo dell’Alpe di Siusi: è il loro sguardo, a noi precluso, che costruisce il panorama alpino e svela la cornice da cartolina entro cui ci siamo abituati a vederlo. La riflessione sull’immagine come sostituto della realtà emerge da ogni scatto di Ghirri, dai suoi scritti, dalle interviste rilasciate e ha influenzato in maniera fortissima Gianni Celati, con cui ha collaborato, e la generazione successiva di scrittori che hanno fatto proprio l’imperativo di sfuggire all’anestesia dello sguardo per praticare insolite e meno battute vie dello stupore e della meraviglia nel quotidiano.
A quasi trent’anni dalla morte, la sua fama e l’apprezzamento della sua opera sono cresciuti in maniera costante in Italia e in tutto il mondo, tanto che si può dire esista un modo di fotografare alla Ghirri. Perché piace tanto? Una delle ragioni credo vada ricercata nel fatto che nelle sue fotografie viene restituita la singola esperienza degli istanti che fanno resistenza allo scorrere del tempo. La modernità, come teorizzava lo scrittore e saggista John Berger, ha fuso insieme tempo individuale e Storia: tutto fuori cambia più velocemente di quanto l’individuo possa fare esperienza, diventa sempre più difficile attingere a quelle forme di impermeabilità del tempo che davano senso alla memoria, che si manifestavano come illuminazioni, momenti memorabili. Le fotografie di Ghirri, realizzate con una ricerca assidua sulla luce e i suoi mutamenti e con lunghi tempi di esposizione, oppongono una resistenza formidabile a questo processo di cancellazione, ci consentono di sostare, riflettere, immergerci. Ci rendono consapevoli che viviamo in un mondo di apparenze che il nostro occhio instancabilmente insegue, ordina, invoca per provare a noi stessi che siamo esistiti in un dato momento, in una certa luce del giorno o della notte, nel ricordo e nel sogno, e dunque in un certo senso per sempre.