Recensione al libro: Sara Mesa, Un amore, La Nuova Frontiera 2021
Torna in Italia, nella bella traduzione di Elisa Tramontin, la scrittrice spagnola Sara Mesa (Madrid 1976) con il romanzo Un amore, pubblicato di recente da La Nuova Frontiera.
Stando a Vivian Gornick, autrice del saggio La fine del romanzo d’amore, risalente a più di una ventina d’anni fa, ma tradotto da poco da Bompiani, la classica storia romanzesca in cui una donna intelligente incontra un uomo di volontà e, attraverso peripezie e prove, giunge al compimento del desiderio romantico di unione non ha più alcun senso in una cultura in cui le donne sono emancipate, i ruoli nella coppia sono messi in discussione, il matrimonio non è più una tappa obbligata verso l’età adulta. Che quel modello di relazione sia entrato in crisi ce lo hanno spiegato anche i saggi della sociologa Eva Illouz, precisi nel mettere in relazione due ordini solo apparentemente separati: sistema economico e forma dei sentimenti.
Ma allora, la letteratura può parlare ancora di amore? Sara Mesa lo ha fatto problematizzando, non tanto quello schema, superato nella realtà, ma la sostanza stessa dell’esperienza amorosa e di quanto l’identità individuale venga plasmata nel rapporto con l’altro.
Protagonista del romanzo è Nat una donna abbastanza giovane, ma non giovanissima, che sceglie di vivere in un posto sperduto della Spagna chiamato La Escapa. L’etimologia del luogo ci rivela già il senso di questa scelta che ha i caratteri della fuga. Da che cosa scappi Nat non è chiaro per un buon pezzo del romanzo, e anche quando verrà rivelato non si tratta certo di ingrediente da thriller, piuttosto è un altro tassello di questo personaggio opaco a se stessa e agli altri, perché a La Escapa vivono individui sradicati, in qualche misura tutti fuggiaschi da qualcosa o da qualcuno. La Escapa è un paesaggio inospitale, poche case fra colline dai colori bruciati, un negozio di alimentari, dove una adolescente serve di malavoglia i clienti e sogna di evadere, i pettegolezzi e le maldicenze sono all’ordine del giorno, la comunità è piccola, gli accadimenti rari e le regole di ciò che si può o non si può fare risultano incomprensibili a Nat, che d’altronde sembra intestardirsi a rimanere in questo posto più per sfida che per altro. Il padrone di casa è rozzo, violento e disonesto, le regala un cane maltrattato, che Nat chiamerà Fiele, a indicare il brutto carattere e la difficoltà ad addomesticarlo. I vicini sono persone maligne, dietro una facciata perbene di famiglia con prole. Eppure Nat rimane, cerca di coltivare un giardino, e sempre per sfida a se stessa si accanisce a fare una traduzione letteraria sentendosi di continuo inadeguata, come confessa a l’unico amico che riesce a farsi, Pìter, una specie di hippie pieno di buon senso. Anche il rapporto fra di loro non è esente da fraintendimenti: l’interesse di Pìter per Nat non ha nessuna nota sessuale o sentimentale, come Nat in un primo momento aveva temuto o forse anche sperato. Nat spia se stessa e gli altri individuando costanti tradimenti: niente è come appare e il linguaggio allontana e distorce. Lei non è in grado di tenere testa alle angherie del proprietario di casa, ma non è nemmeno in grado di raccontarlo all’amico Pìter; vergogna e impotenza la bloccano. Nat non capisce gli altri perché in fondo non capisce se stessa, le proprie motivazioni profonde; le fanno orrore le attenzioni del vicino, ma al tempo stesso le regalano uno sprazzo di vanità femminile, giudica quella comunità ignorante e a tratti volgare, eppure vorrebbe esserne accettata.
Questa opacità, che la rende tutto fuorché una moderna eroina dell’autodeterminazione femminile, la porta a farsi coinvolgere in un rapporto che inizia come un paradossale baratto e diventa una passione per la quale, ancora una volta, Nat non ha letteralmente le parole. Andreas, detto anche il tedesco, sebbene poi si venga a sapere che la madre era una profuga curda, si offre di aggiustarle il tetto, dal quale gronda acqua in casa, se lei gli consentirà di “entrare un poco dentro di lei”. Con queste inaudite parole, cercate con cura in mezzo a un discorso faticoso ma che Nat percepisce del tutto onesto, si avvia una relazione amorosa tanto più intensa quanto più priva della possibilità di definirsi, almeno verbalmente. E ancora una volta Nat deve rivedere le proprie convinzioni e i propri pregiudizi: si ritrova innamorata di un uomo più anziano e taciturno, al quale si era considerata superiore per estrazione sociale, cultura e sensibilità. E non l’amore, piuttosto la cessazione della relazione divenuta nel tempo opprimente a causa della gelosia di Nat, costituisce il momento chiave per l’acquisizione di una forma di sapere. Perché se è vero quello che le dice l’anziana Roberta: “Qui, in questo posto, nessuno capisce nessuno. Non vedi che qui non è nato nessuno. Vengono tutti da fuori. Ognuno parla una lingua diversa”, è altrettanto vero che l’afasia non è solo una questione di lingua, ma di comprensione autentica di sé e del prossimo.
Nat nel confronto con l’alterità spaesante di La Escapa e dei suoi abitanti si rende conto di quanto sia fittizio il proprio io, di quanto siano convenzionali le sue opinioni, di quanta fatica ci voglia per conoscersi e accettare i propri errori. Sara Mesa usa una lingua pulita, sebbene non priva di impennate liriche, e costruisce un romanzo ipnotico il cui oggetto segreto si nasconde di continuo, come dietro a quelle nubi che appannano e rendono vetroso lo sguardo della protagonista fino all’ultima pagina, quando Nat “comprende che non si arriva al bersaglio puntandolo, ma disordinatamente, tramite vacillamenti e giri a vuoto, quasi per caso. Vede con chiarezza che tutto conduceva a questo. Perfino ciò che sembrava non condurre da nessuna parte”. Un controcanto all’individualismo auto-affermativo e all’idea che si possa raggiungere un significato connesso alla vita stessa a suon di volontà e prestazioni inappuntabili.