Recensione al libro: Johann J. Winckelmann, Il bello nell’arte. La natura, gli antichi, la modernità, a cura di Claudio Franzoni, Einaudi, 2008
La raccolta di testi di Johann J. Winckelmann, Il bello nell’arte. La natura, gli antichi, la modernità (Einaudi 2008), curata da Claudio Franzoni, fin dal titolo si annuncia non come una ristampa della traduzione, divenuta ormai canonica, di Federico Pfister, pubblicata dal medesimo editore nel 1943 e poi variamente riedita, bensì come una revisione della tradizione testuale, dello status quo degli studi e della percezione della cosiddetta estetica neoclassica elaborata dallo storico tedesco.
Innanzitutto il testo: quello dei Gedanken e i frammenti della Geschichte proposti da Pfister sono risultati, a un’attenta collazione con l’originale tedesco, in molti punti decurtati, cambiati leggermente di senso, privati delle note originali, delle conclusioni e delle dedicatorie di Winckelmann. Il curatore li ha integrati utilizzando anche la traduzione della Geschichte di M.L. Pampaloni e altre recentissime riedizioni: quella francese a cura di D. Gallo (Parigi 2005), quella inglese di A. Potts (Los Angeles 2006) nonché il catalogo delle opere citate nella Geschichte a cura di A.H. Borbein e Th.W. Gaethgens (Mainz 2007).
Cosa aveva eliminato Pfister? Le sue omissioni sono significative almeno quanto la scelta della sequenza dei testi effettuata nel ’43 per fornire ai lettori il compendio degli scritti brevi di Winckelmann, uno strumento più agile e necessario dopo l’unica edizione italiana delle Opere (Prato, Fratelli Giachetti, tra il 1830 e il 1834), giunta con mezzo secolo di ritardo rispetto alle quasi simultanee traduzioni francesi dei testi winckelmanniani, adottati come manifesto estetico per quel legame tra libertà, democrazia e perfezione artistica che lo storico di Stendal aveva individuato nella Grecia antica e che i termidoriani volevano far rivivere nella neonata repubblica francese.
La traduzione dei Gedanken arrivava viceversa in Italia in piena seconda guerra mondiale e volendo trovare una logica nei tagli di Pfister si potrebbe dire che spariscono, molti, se non tutti, i riferimenti all’antiquaria contemporanea, con la quale Winckelmann si confrontava, ma che forse nel 1943 venivano sentiti come appesantimenti eruditi: Mariette, il barone Von Stosch, Natter, D’Argenville e molti altri nominati in corpo al testo o in copiose note, sono eliminati insieme ai riferimenti agli artisti contemporanei e ai collezionisti, Wilton, Cook, Pembroke, Arundel, come se la loro presenza, anziché contestualizzare l’opera, costituisse agli occhi del traduttore e curatore una vernice di colore troppo locale, un ancoraggio che poteva oggettivare e porre in dialogo dialettico pensieri e idiosincrasie dello storico tedesco. Perché ad esempio eliminare il passaggio iniziale dei Gedanken in cui Winckelmann, forse esagerando, dice che il buon gusto al Nord è stata una conquista lenta e che la bellezza, innata nel popolo greco, non fu subito riconosciuta dal momento che le più ammirevoli opere di Correggio venivano appese come cortine nelle scuderie reali di Stoccolma? Tolti molti di questi riferimenti diacronici, essenziali per Winckelmann, che era stato spettatore diretto dell’impatto che grandi spostamenti d’opere d’arte provocano – si pensi alla vendita del patrimonio estense a Dresda, per non parlare delle successive espropriazioni napoleoniche – l’andamento del testo assume facilmente quel tono astratto, sentenzioso, sempre virato su un registro aulico che ci siamo abituati a pensare fosse la prosa winckelmanniana. Ora il merito di questa nuova edizione è anche quello di restituire un Winckelmann meno algido e più impastato con la storia. Ma sulla linea di quella sorta di ipercorrettismo che guidò Pfister ci sono espulsioni di parti del testo ancora più curiose, quella ad esempio relativa al disegnatore La Fage, che Winckelmann pur ritenendo grande, non giudicava all’altezza degli antichi, perché “nelle sue opere tutto è movimento, e contemplandolo si rimane divisi, e distratti”. Come mai Pfister ritenne di doverla eliminare? La spiegazione non sta nella filologia dei testi quanto nella biografia del traduttore. Federico Pfister, oltre che traduttore dal tedesco (sua e di P. Mingazzi sarà la cura del Cicerone di Burckardt del 1952) era un attivo futurista, artista in proprio con lo pseudonimo di De Pistoris, autore di testi teatrali, vicino ai cosiddetti neopuristi francesi e a Enrico Prampolini di cui curava nel 1940 la monografia nella collana di Arte moderna italiana di Hoepli. Si capisce che a Pfister risultasse indigesta la fatica con cui Winckelmann ammetteva e legittimava il movimento e la concitazione, essendo l’esaltazione della velocità uno dei capisaldi delle avanguardie, e che là dove le affermazioni dello storico tedesco si facevano troppo vicine, ma in negativo, all’estetica futurista egli le cancellasse completamente, è il caso analogo della chiusa del capitolo sull’Essenza dell’arte: “Ma poiché la gioventù focosa tende maggiormente a scegliere gli estremi che non il giusto mezzo, difficilmente essa potrà in questo modo trovare il tono giusto”. Niente di più distante dal giovanilismo futurista. Più complessa potrebbe invece essere la spiegazione dell’omissione della dedicatoria al barone Friedrich Rudolph von Berg, della Dissertazione sulla capacità del sentimento del bello (1763) da cui Pfister eliminò anche la chiusura in cui Winckelmann si lasciava andare alla rievocazione lirica dei bei momenti passati con il giovane principe di cui si era innamorato e di cui aveva inciso il nome sulla corteccia di un frondoso platano a Frascati. Il fastidio per un codice che univa sentimenti d’amore e bellezza, che dagli antichi passava attraverso il petrarchismo e tutta la lirica amorosa occidentale e che nell’esperienza umana di Winckelmann doveva avere avuto una parte non secondaria nell’elaborazione di un linguaggio carico di pathos e di desiderio per l’arte greca, spingeva Pfister a vistose omissioni e, una ventina d’anni più tardi, suscitava in Giovanni Previtali un virulento attacco, in risposta all’uscita della traduzione della Geschichte che non risparmiava nulla allo storico di Stendal: dalla ‘calcolatissima conversione’ alla ‘psicologia da pederasta’ alle ‘intonazioni quasi razziste’ di questo ‘topo d’archivio’, anticipatore delle variazioni decadenti di Walter Pater.
Pur nella forzatura di un giudizio così pesantemente moralista, Previtali doveva aver avvertito quello stesso patetismo descrittivo notato da Diderot, secondo il quale Winckelmann era il fondatore di una ‘religione dell’arte’. E che tale vena mistico-lirica ispiratrice per lo storico tedesco di descrizioni capillari dell’epidermide delle statue, si pensi a quella celeberrima dell’Apollo del Belvedere, fosse profondamente intrisa di elementi biografici − tra cui anche il vagheggiamento di una giovinezza non vissuta − è altrettanto vero. Tuttavia ciò non toglie valore a un approccio che, mentre cerca di essere rigorosamente normativo, di costituire quindi un sistema estetico, è anche profondamente esistenziale, fatto di intenzioni, di atteggiamenti più che di oggettive acquisizioni. Perché Winckelmann non smise mai di domandarsi quale fosse il segreto della bellezza, che rimaneva ai suoi occhi (e ai nostri) uno dei più grandi misteri della natura. E pur cercando di fissare delle norme in base alle quali il corpo umano, ‘il più alto soggetto dell’arte’, poteva risultare idealmente bello, Winckelmann non sfuggiva alle contraddizioni interne al suo stesso sistema, per cui anche se elevava a canone assoluto il bianco del marmo, ammetteva che certe statue fossero altrettanto belle se eseguite in pietre scure, o che certe teste umane di popolazioni nere corrispondessero a un paradigma di bellezza, altrettanto coerente di quello da lui individuato presso i greci.
Winckelmann era peraltro consapevole di quanta inconciliabilità ci fosse nel tentativo di fondere un sistema estetico e una storia dell’arte, basata su periodizzazioni e movimenti ricorrenti, ed era altrettanto consapevole di essere animato da una tensione che andava molto oltre le opere e gli oggetti del suo studio: “Io osservo le copie degli originali con maggior attenzione di quanto farei se fossi in pieno possesso di quelli. Spesso ci accade come a coloro che vogliono vedere gli spiriti e credono di vederli dove non è nulla”. L’edificio dogmatico della bellezza ideale, della grazia, del sentimento contenuto in un impercettibile fremito del marmo, della giovinezza pronta a rinnovarsi costantemente si appoggiavano in realtà su una paurosa assenza, un mondo perduto che solo gli occhi del desiderio possono contemplare, non solo attraverso i capolavori (quali poi e di che epoca?) ma a partire dalle copie, dagli oggetti umili, dalle rovine. Marguerite Yourcenar colse perfettamente la consonanza della sensibilità moderna con questa disposizione verso l’antico. Nel saggio Il tempo grande scultore (1954) ricorderà Stendhal che si commuove sull’Ermafrodito dal piede spezzato, poiché “un mondo di violenza avvolge d’intorno queste forme tranquille”; è sempre la Yourcenar a indicarci il gesto dello scultore Thorvaldsen che integra le statue mutile come segno di pietas, la stessa pietas che noi, ormai assuefatti a ferite e rovine, interpretiamo al contrario relegando le opere nella loro bellezza mutila da bacheca museale. Ma anche questo atteggiamento non sarebbe possibile se ogni pagina del testo che ha rifondato la storia dell’arte alla fine del diciottesimo secolo − e a dispetto delle numerose confutazioni che l’archeologia moderna ha inferto a Winckelmann − non ripetesse costantemente e implicitamente la domanda che Franzoni esplicita con lucidità in chiusura della sua premessa: “Il confronto con le opere del passato si riduce a un racconto o si può tradurre in un’esperienza?”
(Alias, 24 giugno 2008)