Articolo: Il registratore, Doppiozero, 2 gennaio 2013
Per molto tempo l’ascolto della musica è stato un rituale legato alla stanza della mia casa d’infanzia definita sala: moquette turchese scuro per terra e divani in pelle marrone, un grande stereo con giradischi addossato a una parete, molto spazio fra il tavolo e le poltrone. Per conquistarmi quel territorio ci fu bisogno di dimostrare a mio padre che sapevo maneggiare con perizia la puntina, inserirla in modo appropriato nei solchi neri senza graffiare, e che mi accorgevo se c’era polvere e sapevo toglierla con un pannetto antistatico speciale, di color arancione. Avevo bisogno della sala, e del giradischi soprattutto, perché a sette anni avevo iniziato a frequentare un corso di danza classica, disciplina che con più o meno assiduità ho praticato per i vent’anni successivi. Passavo i pomeriggi a ripetere gli esercizi appresi a scuola dalla mia insegnante russa, insieme ai nomi di musicisti che nella loro grafia straniera racchiudevano il mistero di mondi che in tutto ritenevo superiori al mio. Ai valzer viennesi di Strauss si affiancarono i notturni di Chopin, le Gymnopédies di Satie, e Prokofiev e Fauré, tutti in vinile, tutti richiesti e attesi come prezioso regalo di natale, di compleanno, di promozione.
Sentivo un legame intimo fra la puntina del giradischi e la danza classica, una questione di metrica che trasformava un’esperienza tutta fisica in una miracolosamente astratta. Quando la puntina si posava nel solco entrava in un tempo speciale, slegato dalla realtà, come lo erano i movimenti che avevo imparato a fare, dotati di una loro ragione interna e di armonia, ma insensati a un occhio distante, come poteva essere quello di mio fratello, che ogni tanto veniva a sbirciare e rideva.
Poi arrivò il registratore. Mio padre ce lo depositò sul tavolo in cucina: un parallelepipedo portatile di metallo grigio chiaro, con una griglia di fori regolari da cui usciva la musica nella parte superiore, una finestrella centrale di plastica dove inserire la cassetta, munito di filo e spina, ma anche di pile. Conoscevamo già le cassette per via dell’impianto in auto, ma da quel momento in poi avremmo potuto ascoltare e registrarle dove volevamo, disse mio padre, mostrandocene una vergine e il tasto su cui premere per farlo. Mio fratello accolse con entusiasmo l’invito di REC, il tasto nero di plastica, modellato con una conchetta al centro fatta apposta per accogliere il polpastrello. Cominciò a sperimentare prima con un semplice ‘ciao’, poi con qualche verso sguaiato e qualche frase più lunga, di stampo già televisivo: ‘signore e signori, benvenuti anche questa sera …’
Io mi irrigidii. Non ci voleva un genio a capire che quell’affare poco più grande di un sussidiario scolastico, e perfino dotato di un manico, sarebbe diventato l’oggetto del contendere domestico e che avremmo lottato per poter ascoltare in camera, in bagno, ovunque, le cassette con le canzoni di Donna Summer e dei Bee Gees che fino a quel momento avevamo acoltato solo in auto. Ma c’era dell’altro. Non mi piacque il rumore di plastica prolungato emesso dal tasto per far partire la musica, o fermarla, e quando poi venne fuori che si poteva andare avanti e indietro nell’ascolto delle canzoni con quel fruscio prolungato da gatto in amore l’intera faccenda diventò sempre più deludente.
Il registratore non produceva il tempo inciso con la puntina del giradischi che per finire si sospendeva in una specie di estatico oh, mentre la stanghetta rientrava in sede. Il registratore strisciava sul tempo ed era capace di mangiarsi il nastro come pane.
Un giorno mio fratello registrò a mia insaputa una conversazione fra me e lui, quando me la fece riascoltare disse: “Fanno così anche i terroristi e i rapitori”. Di sicuro aveva una idea ben vaga dell’uso della tecnologia da parte di quest’ultimi, sui quali poi le sue, e le mie, idee dovevano essere ancora più imprecise, estrapolate dall’ascolto di telegiornali e discorsi degli adulti. Però era chiaro che con quell’oggetto, che si chiamava per l’appunto registratore e non mangianastri come quello dell’auto, era il presente a venir messo in gioco, con i suoi pericoli, la sua indefinitezza, la sua possibile sporcizia. Nessuno di noi due sapeva quanto poco impieghi il presente a ruotare su se stesso e diventare distante, ricco di sfumature e di testimonianza. E come il rumore possa, se modulato, diventare suono.