Suddiviso in dieci capitoli corrispondenti ad altrettanti temi, L’Arte di raccontare (Nottetempo 2015) è un’agile raccolta di interviste realizzate da Caterina Bonvicini e Alberto Garlini a dieci scrittori stranieri tra i più noti fra quelli tradotti in italiano. Nate come interviste pubblicate di volta in volta su Il fatto Quotidiano del lunedì, con l’intento di portare il lettore dentro il laboratorio della scrittura, queste interviste hanno il grande pregio di essere costruite con la regia di due autori, Bonvicini e Garlini, che sono a loro volta scrittori. Sempre focalizzate, tecniche, capaci di risalire dal dettaglio stilistico all’impianto generale dell’opera, le domande poste nascono da chi pratica la scrittura, come vocazione e mestiere, e sa che il confine fra ciò che si può insegnare, ma ancora prima imparare, e ciò che sfugge all’apprendimento e all’insegnamento è parecchio instabile, soggettivo al punto da non poter essere mai sistematizzato una volta per tutte. Esistono buone o cattive scuole di scrittura, utili o inutili corsi, ed esistono le parole sulla scrittura degli scrittori: né le une né le altre esauriscono i meccanismi del processo creativo, il perché e come un’opera narrativa riuscita venga concepita e sviluppata in un certo modo; ma se per Garlini ricorrere alla parola dell’autore è un modo per fare spazio, come se il momento sorgivo di un’opera, di un’idea originale, fosse sempre un’interruzione nella continuità già nota e abusata, per Bonvicini la conoscenza degli autori e del loro modo di raccontare la propria scrittura rientra nella preliminare educazione che chiunque pratichi il mondo delle lettere deve avere: “Da lì non si prescinde. Il problema semmai è che non basta”.
Non basterà, certo, a scrivere il prossimo capolavoro, ma è più che sufficiente per attraversare con il piacere di essere guidati da maestri alcuni nodi ineludibili della prosa creativa, come queste interviste ci invitano a fare. Si comincia dunque con la prima distinzione: romanzo o racconto, la domanda fil rouge dell’intervista all’irlandese Colm Tóibín, che dichiara nel più classico dei modi come il romanzo aspiri a fornire uno spaccato della storia e della società, mentre il racconto può ruotare intorno anche a una sola scena o frase epifanica, poi però ammette che il racconto è destinato a un pubblico più scelto, perché più addestrato a notare i dettagli, e quindi necessita di una cura e di un cesello maggiore, insomma un’arte da virtuosi e per virtuosi.
Con l’intervista a Jhumpa Lahiri, scrittrice naturalizzata americana di origine bengalese, premio Pulitzer nel 2000, si affronta il problema dell’incipit, che varia: può essere disteso e presentare via via gli elementi della storia per un romanzo, deve viceversa entrare nel vivo fin da subito per un racconto, ma per Lahiri l’incipit non necessariamente è la parte che viene scritta per prima, a volte solo dopo che tutta la storia e i personaggi sono stati sviluppati riesce a definire quale sia l’attacco giusto. Il che significa che Lahiri non riesce mai a definire del tutto un romanzo se non stando dentro le sue molte riscritture, spesso intervallate dal tempo necessario a farle depositare.
L’intervista alla statunitense Elizabeth Strout è incentrata sul personaggio, persone piuttosto comuni animano infatti i suoi racconti e romanzi e l’autrice spiega come sia indispensabile considerare l’individualità di ciascuno come assolutamente interessante, solo in questo modo lo diventa anche per il lettore. Alla base di questo processo c’è dunque una dose fortissima di empatia e di capacità di visualizzare le persone senza giudicarle, la scrittura può infatti restituirle nella loro complessità e farcele percepire come dotate di un destino.
Con John Banville, romanziere e giornalista irlandese, viene affrontato il problema del punto di vista, da cui dipende in larga parte la scelta di una narrazione in prima o in terza persona. Banville dichiara di adottare la prima persona in quanto la sua scrittura si rifà a un’istanza cognitiva e sensoriale che non può prescindere da chi dice io, ed esperisce il mondo. Scrittore impegnato a rendere il senso atmosferico delle vicende e il loro accadere interiore, Banville considera la soggettività come l’unico punto di vista possibile per restituire anche il senso del tempo e la percezione rapsodica che ne abbiamo.
Edward St Aubyn, autore della saga dei Melrose, si cimenta con domande relative all’ambientazione: i luoghi vanno costruiti in base all’esperienza, cercando di coniugare memoria e immaginazione che di per sé sono strettamente legate, i luoghi hanno un valore simbolico all’interno della costruzione romanzesca, la loro scelta e descrizione deve riallacciarsi al destino dei personaggi.
Con Yasmina Reza, sceneggiatrice e scrittrice francese, si tratta il dialogo, banco di prova (e di fallimento) di molti scrittori. Per l’autrice di molte commedie di successo il dialogo è il presente della scrittura dove tutto deve accadere in diretta, la scuola per lei è stata il teatro dove corpo e parola devono dire senza appigli esterni. Sapere costruire buoni dialoghi è una questione di ascolto e di ritmo.
Ad Emmanuel Carrère tocca il tema della biografia. Autore di vite di personaggi inquietanti, spesso criminali, lo scrittore francese spiega come immaginare queste esistenze sia per lui un esercizio estremo di alterità, all’interno del quale è però necessario trovare i punti di contatto: saranno quelli a saldare, talora in modo pericoloso e disturbante, la vita dello scrittore a quella dei suoi soggetti, calamitando tra due poli che agiscono per sovrapposizione e contrasto, l’attenzione del lettore. Carrère spiega anche come questo procedimento, che si è consolidato nei successivi romanzi, sia nato da un’impasse nello scrivere L’avversario, trasformando la narrazione dalla terza alla prima persona.
Javier Cercas si cala nei problemi dell’autofiction, di cui tanto si è parlato in tempi recenti. Per lo scrittore spagnolo tutta la scrittura è riconducibile a una radice autobiografica. Decidere di porsi all’interno della narrazione significa scegliere di assumere una maschera, per dire alcune cose e tacerne altre, la letteratura, infatti, a differenza della cronaca e della storia, mira a una verità morale, ed è solo a partire dalla proprie domande che può cercare di restituire questa verità, astenendosi dal giudizio e aprendo la strada alla comprensione.
Allo scrittore greco Petros Markaris è rivolta l’intervista sul giallo. Markaris ha costruito un personaggio di detective molto umano, affine al Maigret di Simenon, una persona ‘normale’, con moglie e figlia, che nella corruzione e nella lutulenza burocratica di Atene risolve i crimini di delinquenti altrettanto ‘normali’. Una scelta precisa di giallo mediterraneo, con largo spazio concesso all’indagine sociale e alla descrizione della vita quotidiana con le sue piacevolezze, che Markaris contrappone a quello nordico, dove i detective non sono persone comuni, ma dotati di super-intelligenze che brillano nel vuoto di vite grigissime.
Infine, chiude la rassegna l’intervista a Luis Sepúlveda, intervistato sui meccanismi della favola, genere che lo scrittore cileno ha praticato insieme alla sceneggiatura e al romanzo. Per Sepúlveda la favola è un ottimo modo per comunicare contenuti e valori in maniera esplicita, attraverso lo spostamento dei comportamenti umani sugli animali – gatti, gabbiani, lumache che popolano i suoi racconti – è possibile fornire una lettura morale della società e del mondo senza per questo diventare prescrittivi.
A voler trovare un difetto a questa preziosa raccolta si potrebbe dire che termina troppo presto e ci lascia con il desiderio di sentire ancora parlare gli scrittori della loro arte, dei loro trucchi, delle loro convinzioni, dei loro consigli, ma si tratta in realtà di un successo: le dieci interviste hanno aperto molte altre porte e finestre attraverso cui il lettore può entrare e osservare quegli edifici complessi e mutevoli in prospettiva che sono le opere letterarie.