Si parla tanto, in questi giorni di feroce emergenza sanitaria legata al Covid19, di come gli spostamenti umani siano corresponsabili della diffusione del virus, e tutti quanti proviamo sulla nostra pelle la difficoltà di concepire un orizzonte, individuale e collettivo, senza movimento.
L’umanità sembra definirsi, anche e soprattutto, attraverso gli spostamenti, le relazioni e gli scambi.
È curioso notare come quelli legati al concepimento di una nuova vita, in una popolazione con un crescente problema di infertilità come la nostra, rimangano sommersi, non dichiarati.
Il 9 aprile 2020 sono trascorsi sei anni da quando la Corte Costituzionale ha abolito il divieto al ricorso alla fecondazione eterologa che era stato sancito dalla legge 40/2004. Durante questi sei anni un numero crescente di bambini è nato tramite una delle tecniche di fecondazione assistita (PMA) che prevede l’utilizzo di materiale genetico, gameti maschili o femminili, esterno alla coppia, ciò significa che circa 1500 nuovi bambini, ogni anno, nascono con un patrimonio genetico che coincide solo per il 50% o a volte è del tutto esterno a quello dei genitori.
Ma poiché in Italia, complice anche il decennio di moratoria sull’eterologa 2004-2014, non esistono praticamente né donatrici di ovociti né donatori di spermatozoi, viene da domandarsi: da dove vengono quei gameti? Che viaggio compiono prima di diventare una nuova vita con cittadinanza italiana?
L’ho chiesto ad Anna Pia Ferraretti, medico pioniere nel nostro paese della procreazione assistita e fondatrice del SiSmer, Società italiana di medicina della riproduzione, che mi ha confermato quanto si sa per sentito dire: il 95% dei gameti usati nell’eterologa proviene dall’estero, in particolare nel caso degli ovociti dalla Spagna che dispone di molte banche certificate di raccolta, alle quali si rivolgono i pochi ospedali pubblici, e le più numerose cliniche private, che in Italia aiutano le coppie sterili ad avere un figlio.
Le domando: per quale ragione in Italia non si donano gameti? “Perché questa pratica era proibita, fino a non molto tempo fa, perché ai donatori e alle donatrici non viene corrisposta nessuna forma di rimborso economico, e soprattutto perché non esiste una cultura in tale senso, non se ne parla e non la si promuove”. Cosa intende, – la incalzo – quando dice non se ne parla? “La donazione di sangue viene raccontata e promossa nelle scuole, ad esempio. Mentre della donazione di gameti non si parla nemmeno nelle famiglie che si sono formate ricorrendo a questa tecnica. Rimane ancora in larga parte tabù”.
Ai bambini adottati si dice che lo sono, e non vedo perché non si potrebbe fare altrettanto con quelli nati da una donazione di gameti, ma un tabù è un fenomeno complesso da smontare. Le parole di Ferraretti mi ricordano quanto scrive Marta Baiocchi nel suo In utero. La scienza e i nuovi modi per diventare madre (Sonzogno 2018): “La possibilità di fecondare l’uovo di una donna al dì fuori del suo corpo apre una scatola nera il cui meccanismo era sempre apparso impossibile da forzare o anche soltanto da capire.” È una opportunità che tecnologia e progresso medico ci offrono, ma che non abbiamo ancora compiutamente elaborato a livello di pratiche culturali, di un pensiero e di un’educazione adeguata.
Come tutti i gesti che, pur venendo praticati, non si riflettono in una narrazione condivisa, la fecondazione eterologa e la donazione di gameti fanno emergere contraddizioni forti almeno quanto gli stigmi sociali ed etici che generano. A partire dagli aspetti economici: una fecondazione eterologa si aggira fra i tremila e i quattromila euro di costo, nel caso la richiesta sia di ovociti, più complicati e dispendiosi da ottenere da un punto di vista clinico, mentre è inferiore se si tratta di gameti maschili. L’Italia è l’unico paese d’Europa in cui non sia previsto un rimborso spese per chi dona, altrove si va dai 400 ai 1500 euro, cifre molto contenute che però, specie nel caso della donazione di ovociti, possono risarcire lo stress psicofisico cui si sottopone una donna, tramite la stimolazione ovarica e il prelievo che è pur sempre un piccolo intervento svolto in sedazione profonda. Se l’obiettivo italiano era quello di evitare la commercializzazione dei gameti, la situazione attuale impone un ricorso non meno oneroso e corredato da tanto di gare d’appalto fra banche straniere di semi e ovociti. Il turismo all’estero a scopo procreativo ha subito una flessione, ma il costo per avere un bambino rimane elevato, quando invece dovrebbe essere coperto in larga parte dallo Stato. In merito ogni nazione dell’Unione Europea ha una legislazione propria. Ubiqua sembrerebbe invece la predilezione per i gameti maschili danesi, da sempre organizzatissimi in banche del seme in grado di raggiungere con i loro kit di crioconservazione tutto il mondo; potendo scegliere, assecondando la peggior eugenetica, meglio bambini biondi con occhi chiari e fisico nordico. L’eterologa è poi legale in Italia solo per coppie di sesso diverso, mentre continua a essere vietata ai single e alle coppie omogenitoriali; gli uni e le altre continuano ad andare all’estero, quando possono permetterselo. E se al rischio di consanguineità, dovuto a un numero troppo alto di donazioni, si è posto rimedio con un tetto di cinque-sei per le donne, dieci per gli uomini, e con un registro internazionale dei donatori, un’altra questione aperta mi pare quella relativa all’anonimato, una norma rigidamente applicata in Italia e viceversa venuta a meno in alcuni paesi come la Gran Bretagna, dove da qualche anno si riconosce il cosiddetto diritto del nascituro che potrà, volendo, rintracciare il proprio o i propri genitori biologici. Questo ha comportato un iniziale crollo delle donazioni, poi una ripresa, a dimostrazione che si tratta di un campo dove norme giuridiche e comportamenti sono ben lungi dall’essere definiti una volta per tutte o dall’essere omogenei di paese in paese.
In uno scenario tanto sottaciuto e contraddittorio come è quello italiano, e non meno frammentato come è quello europeo, dopo aver consultato i dati della scienza e la voce di un medico, ho cercato il contatto con un donatore. L’ho trovato in un italiano che vive in Inghilterra, (per rispetto della privacy non ne rivelerò il nome) e gli ho rivolto queste domande:
Cosa l’ha spinta a diventare un donatore di gameti?
“Due cose che mi hanno ispirato a fare questa scelta. La prima fu un articolo che lessi qualche anno fa, diceva che non abbastanza uomini residenti nel Regno Unito stavano donando i loro gameti e che la maggior parte dei gameti utilizzati in questo paese sono importati dalla Danimarca: ora quell’articolo non lo trovo più, ma una rapida ricerca su Google suggerisce che il problema persiste, sebbene apparentemente in misura minore. L’altro e più importante evento fu la nascita di mio nipote – mia cognata e la sua partner non sarebbero state in grado di averlo senza l’aiuto di una fertility clinic, e pensai che sarebbe stato bello aiutare altre coppie ad avere un bebè meraviglioso come il loro figlio”.
Nel paese in cui vive, quante donazioni sono consentite a un singolo donatore?
“Dieci, ma ad esempio della mia donazione è possibile che alcuni dei miei gameti siano (o siano già stati) utilizzati a fini di ricerca”.
In Inghilterra, da qualche anno, è legittimo poter risalire ai propri genitori biologici, quindi per un bambino, che poi diventerà adulto, al proprio donatore/donatrice. Come giudica questo diritto?
“Penso che tutti dovrebbero avere il diritto di sapere e capire da dove provengono. Diffido delle generalizzazioni, ma mi sembra che sia un bisogno umano abbastanza naturale, o, almeno, il bisogno di capire da dove vieni sembra un istinto diffuso nella società occidentale contemporanea, dove purtroppo molte persone non hanno un senso molto chiaro di chi fossero i loro antenati, al di là di nonni e forse bisnonni. Pensiamo alla popolarità dei test del DNA. C’è anche il fatto che il DNA non trasmette semplicemente tratti fisici, ma anche aspetti più nebulosi della propria identità, come i tratti della personalità. Ci sono studi, ad esempio, sui cosiddetti traumi trasngenerazionali, attraverso minime mutazioni in certe molecole del DNA si possono riprodurre inclinazioni all’insonnia, all’ansia o alle dipendenze. Da quel punto di vista, imparare di più sul proprio donatore potrebbe anche aiutare una persona a capire meglio il proprio funzionamento interiore. Allo stesso tempo, capisco anche perché alcuni potrebbero non voler sapere di più sul proprio donatore: il modo in cui sono allevati dai loro genitori e l’eredità culturale dei loro genitori potrebbe benissimo essere sufficiente per comprendere se stessi e il proprio posto all’interno di una storia genealogica”.
In Italia l’anonimato di donatori e coppie riceventi è ritenuto prioritario. Cosa temono i genitori affettivi o intenzionali nel rivelare ai propri figli la loro origine biologica?
“Non sono sicuro di poter rispondere a questa domanda, poiché la mia esperienza è limitata al sistema britannico. L’unica cosa che mi viene in mente è che, secondo un esperto intervistato in un articolo che ho letto recentemente (https://www.wired.co.uk/article/brexit-danish-sperm-banks-imports), il motivo per cui molte coppie nel Regno Unito preferiscono utilizzare gameti importati dalla Danimarca, oltre a fattori genetici di compatibilità e somiglianza nei tratti fisici, potrebbe essere perché sono preoccupati che la ricerca di un donatore da parte del figlio possa interferire con le dinamiche familiari: da quel punto di vista, i donatori stranieri sarebbero forse più difficili da rintracciare”.
Esiste in Inghilterra un rimborso spese per i donatori? (Le direttive dell’Unione Europea lo prevedono)
“Sì, non è una somma enorme, ma non è nemmeno insignificante, l’equivalente di 70 euro per ciascuna donazione, considerato che si può arrivare fino a dieci”.
In che modo ha fatto i conti con la fantasia e con il pensiero dei bambini che potranno nascere dalla sua donazione?
“Il mio ruolo nella creazione dell’ipotetica persona che nascerà dai miei gameti è in un certo senso essenziale, ma nel complesso piuttosto secondario; non può essere paragonato al lavoro che i veri genitori svolgeranno, giorno dopo giorno, anno dopo anno, per aiutarla a diventare (si spera) un essere umano felice e completo. Più che agli ipotetici bambini, quando penso alla mia donazione, penso agli ipotetici genitori: ho ansie che anche col mio aiuto certe coppie non riusciranno a concepire e, allo stesso tempo, sono pieno di speranza che i miei gameti contribuiranno alla felicità di almeno tre o quattro coppie. Mi chiedo spesso anche che tipo di coppia sceglierebbe i miei gameti; a volte, immagino una coppia di immigrati dal Mediterraneo, come me, o una coppia mezza britannica e mezza mediterranea, come me e la mia partner.
In effetti a volte provo a immaginare come sarebbe se, tra diciotto anni, un bambino nato dalla mia donazione volesse incontrarmi. Ma trovo abbastanza difficile immaginare cosa farò e come sarò tra cinque anni, in confronto diciotto è quasi impossibile – sarò quasi cinquantenne! Sono anche consapevole del fatto che una percentuale di bambini nati da gameti donati non vogliono incontrare i propri donatori, per vari motivi. Se qualcuno nasce dalla mia donazione, e tra diciotto anni questa persona viene a cercarmi, sarò molto felice di incontrarla e rispondere a qualsiasi domanda possa avere, anche se, come ho detto, non so cosa aspettarmi. Ho il diritto di chiedere alla clinica se la mia donazione ha portato a nascite, e quante, e finora non è ancora successo. Forse se e quando un bambino nascerà dalla mia donazione, il modo in cui immagino l’incontro prenderà forma più concreta.
La clinica attraverso la quale ho fatto le mie donazioni mi ha chiesto di scrivere un messaggio che poi passeranno a qualsiasi ipotetica persona nata dai miei gameti che sia interessata. Non ricordo le mie parole esatte, ma penso di aver semplicemente spiegato che ad ispirarmi a donare i miei gameti fu la felicità che la nascita di mio nipote portò alla sua/nostra famiglia.”
(Articolo pubblicato su la La Lettura il 4 aprile 2020)