La castità o la morigeratezza sessuale sono da secoli attributi richiesti espressamente da molte culture, quasi tutte, al genere femminile.
Ci sono volute le lotte delle donne in epoca vittoriana, delle femministe del Novecento e di quelle di oggi per dire a chiare lettere come si tratti dell’ennesimo risvolto oppressivo di un sistema patriarcale che concede tutti i privilegi agli uomini, al prezzo di negare moltissime libertà alle donne.
Non si tratta di virtù, dunque, ma di privazione di libertà.
Tant’è che agli esponenti di sesso maschile non è mai stato chiesto di essere virtuosi in tal senso, anzi, spesso è accaduto il contrario.
E perché questa non sembri la diatriba dell’ultimo minuto, la parità che livella supposte differenze essenziali (mai verificate né dalla scienza né dalla cultura, o meglio verificabili e spiegabili proprio da queste, ma allora non sono più così essenziali) riporto i bellissimi versi del canto IV dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, poeta nato nella mia stessa città, Reggio Emilia.
Quest’anno ricorre il cinquecentenario della pubblicazione del poema (1516). Fa impressione leggere i versi illuminati di Ariosto e pensare che ancora, nelle pratiche e spesso anche nelle leggi, ci dibattiamo intorno a questa inemendata disuguaglianza.
La storia è lenta nelle sue conquiste, il potere è difficile da educare e piegare alla giustizia.
Siamo nel canto IV del Furioso, il paladino Rinaldo nella selva di Scozia incontra il pietoso caso di Ginevra condannata a morte per aver corrisposto il proprio amato non essendogli ancora moglie. Ma Rinaldo obietta a questa orrenda legge e corre a liberare Ginevra.
Orlando furioso, canto IV, LXV
“Non vo’ già dir ch’ella non l’abbia fatto;
che nol sappiendo, il falso dir potrei:
dirò ben che non de’ per simil atto
punizion cader alcuna in lei;
e dirò che fu ingiusto o che fu matto
chi fece prima li statuti rei;
e come iniqui revocar si denno,
e nuova legge far con migliore senno.
S’un medesmo ardor, s’un disir pare,
inchina e sforza l’uno e l’altro sesso
a quel suave fin d’amore, che pare
all’ignorante vulgo un grave eccesso;
perché si de’ punir donna o biasmare
che con uno o più d’uno abbia commesso
quel che l’uom fa con quante n’ha appetito
e lodato ne va, non che impunito?
Sono fatti in questa legge disuguale
Veramente alle donne espressi torti;
e spero in Dio mostrar che gli è gran male
che tanto lungamente si comporti.”