In questi giorni così scossi dagli attentati di Parigi del 13 novembre scorso e dalla minaccia di un conflitto globale, anche questo libro che affonda le radici nella Germania della Seconda guerra mondiale ci ricorda che l’identità è frutto di relazioni umane, non di meri confini nazionali, che la violenza genera solo ulteriore violenza e traumi pronti a scavalcare i secoli, le memorie individuali e rendere ancora più pesante il fardello della storia umana.
Già autrice di raccolte poetiche in tedesco, sua lingua madre, e in italiano, L’igiene della bocca (2006) e Volti di parole (2010), entrambi pubblicati dall’editore L’Obliquo, Eva Taylor esordisce con la raccolta di racconti Carta da zucchero, già premiata dalla XIII edizione InediTo Premio Colline di Torino del 2014 e ora pubblicata da Fernandel.
Si tratta di una serie di racconti brevi che insieme formano un romanzo familiare, protagonista è la famiglia dell’autrice che dall’Est della Germania si trasferisce all’Ovest, poco prima della costruzione del muro. Il punto di vista è quello ‘ribassato’ di una bambina, che non solo non capisce il perché di questo trasferimento, ma tende a viverlo, come tutti i fatti dell’infanzia, in modo sognante e a tratti mitologico.
I racconti evocano i luoghi, la vecchia casa costruita davanti alla fabbrica “Miwepa” che produceva cartone ondulato, quella ‘casa pancia’ costruita con la fame dei nonni, che sembra parlare alla bambina di cose misteriose e paurose, la cuccia del cane, la casa dei vicini, il paese dove tutti si conoscono, il piccolo cimitero, il castello: questo mondo sparisce in una notte del giugno del 1961 quando, grazie all’aiuto di un cugino della nonna la famiglia fugge a Ovest, a Berlino. Da quel momento in poi tutto si sdoppia: la bambina capisce che c’erano una vita, una lingua, un modo di pensare di prima e che ci sono una vita, una lingua, un modo di pensare molto diversi e che la ricomposizione delle due parti sarà un lavoro lungo una vita, anzi non finirà mai, scrive infatti: “Il giorno della nostra fuga è stato lunghissimo. E continua ancora”.
Oggetti e abitudini verranno transitate dall’altra parte, ma con un esito sempre incerto, come se gli oggetti dell’Est racchiudessero una specie di magia che non riesce a rinnovarsi o perde di significato se trasferita. Il servizio di porcellana di Henneberg, ad esempio, o le buste per la spesa color carta da zucchero, Staubblau, il blu polvere che fa chiedere alla bambina “La polvere allora è bella?” Domanda alla quale il nonno risponde: “Può esserlo, se vedi che c’è qualcosa di bello sotto”.
Ma non è solo la vita degli oggetti, con i suoi correlativi emotivi, a venir messa in discussione, è anche il passato non tanto remoto dell’intera famiglia: uno zio che imprudentemente canta canzoni naziste e per questo viene processato dal partito, la SED, e perde il lavoro, per cui occorre mandargli ogni settimana ricchi pacchi di cibo e vestiario da Berlino (quelle canzoni le sapevano tutti e sarebbe ipocrita negarlo, commenterà il padre, ma intanto perché lo ha fatto si chiede la nonna); un nonno tanto sorridente in fotografia, che si scopre aver avuto due famiglie e per questo viene biasimato molto di più che per il fatto di essere stato a suo tempo un capitano della Wehrmacht. Di questi fraintendimenti e negazioni è sottesa tutta la trama intima del libro. Lo sguardo infantile, ingenuo e allertato al tempo stesso, gettato sugli anfratti familiari contribuisce a creare l’impressione che le rimozioni e i traumi all’interno del proprio stesso paese e della propria storia abbiano radici profonde e conseguenze di lunga durata.
L’autrice non giudica, si limita a riportare le notizie della propria famiglia, come se stesse sfogliando un album e prendesse atto che “una volta arrivati nell’Ovest, lo sdoppiamento continuò, era diventato una seconda natura”. Con una lingua piena di accensioni liriche, Eva Taylor ci fornisce un racconto inedito e intimo di uno dei grandi traumi socio-politici del Novecento.