Dipinto nella campagna di Argenteuil nel 1873, questo quadro di Claude Monet raffigura la moglie Camille e il figlio Jean che attraversano il pendio dolce di una collina ricoperta di erba alta e papaveri.
Madre e figlio sono ripresi per due volte: in alto a sinistra all’inizio della discesa, in basso a destra quando ormai sono nel folto della vegetazione e più prossimi a noi che li guardiamo. Lo sfondo rimane invariato ma la luce che li colpisce cambia, lo vediamo dalla differente colorazione dei vestiti, Camille e Jean hanno attraversato non solo l’erba prospera e infestante che culmina nelle teste rosse di maggio, i papaveri per l’appunto, hanno attraversato un tempo, hanno vissuto, continuano a farlo nel quadro che riprende questo loro passaggio silenzioso e privo di eventi.
Dipingere all’aperto per Monet non voleva dire solo liberarsi dalle costrizioni figurali del paesaggio idealizzato o dei generi accademici, ma soprattutto rendere la cosa più difficile da rendere nelle arti, come in letteratura, ossia lo scorrere del tempo che è di per sé una forma di narrazione. In cima alla collina Camille e Jean erano così, arrivati a valle sono diversi, eppure sempre loro. Mi torna in mente la bellissima raccolta di saggi di Marguerite Yourcenar, Il Tempo, grande scultore, e come niente quanto l’aperto – della natura, del fuori, dell’attraversamento qualunque esso sia – mima l’intimo movimento che sentiamo inesorabile e necessario dentro di noi: il tempo che passa.
In certe giornate in cui non accade nulla di rilevante, ma mi lascio attraversare con maggior disponibilità dalle circostanze, penso che l’unico soggetto del dire umano dovrebbe essere questo mistero del suo essere nel tempo. La vera misura interiore di ciascuno di noi, la sola verità inalienabile e per costituzione di continuo metamorfica.